L’attacco dei vescovi ai mafiosi: «Siete tutti peccatori»
Sicilia Venticinque anni dopo l’intervento di Wojtyla la Chiesa siciliana torna a schierarsi
Sicilia Venticinque anni dopo l’intervento di Wojtyla la Chiesa siciliana torna a schierarsi
Era il 9 maggio 1993 quando Giovanni Paolo II, nella Valle dei Templi di Agrigento, gridò ai mafiosi quel «Convertitevi!» diventato storico.
Ieri i vescovi di Sicilia, ad Agrigento, dopo 25 anni, hanno ricordato l’evento, pubblicando una lettera, titolata Convertitevi! (per «prolungare l’eco dell’appello alla conversione») che esce proprio nel giorno del quarantesimo anniversario dell’omicidio mafioso di Peppino Impastato, il cui volto è riprodotto in una bella fotografia – alle sue spalle, il balcone di Radio Aut – all’interno del lungo testo dei vescovi (47 pagine), edito da Il Pozzo di Giacobbe.
«Tutti i mafiosi sono peccatori, quelli con la pistola e quelli che si mimetizzano tra i cosiddetti colletti bianchi», scrivono i vescovi, per i quali – l’affermazione non è nuova – le mafie sono «strutture di peccato». «Peccati» non sono solo omicidi, stragi e traffici illeciti grandi e piccoli dentro e fuori la Sicilia (o l’Italia), ma anche «l’omertà» (il «silenzio» di chi diventa «complice») e «la mentalità mafiosa», che «si esprime nei gesti quotidiani di prevaricazione».
Viene affrontato il nodo – meno intricato ma non ancora del tutto sciolto – dei legami fra Chiesa cattolica e mafia. «La mafia è un problema che tocca la Chiesa, la sua consistenza storica e la sua presenza sociale in determinati territori e ambienti, il vissuto dei suoi membri, di quelli che resistono all’invadenza mafiosa e di quelli che invece se ne lasciano dominare», scrivono i vescovi.
Per molto tempo la Chiesa è restata in «silenzio» davanti al fenomeno mafioso. Ora la «comunità credente, nel suo complesso», ne ha «preso le distanze». Però, notano i vescovi, «rischiamo di passare dal silenzio alle sole parole», e «il discorso ecclesiale riguardante le mafie» di essere più descrittivo che profetico». Vanno bene le «scomuniche», ma hanno «eco brevissima». Invece devono entrare nelle «parrocchie» (con una «catechesi interattiva, pratica e contestuale»), attraversare «le strade delle nostre città e dei nostri paesi», «scuotere davvero i mafiosi» ad una «conversione sincera» («chi si affilia alle organizzazioni mafiose pur continuando a farsi il segno della croce»).
«Dopo il Concilio Vaticano II e la strage di Ciaculli del 1963 – spiega al manifesto Alessandra Dino, docente di Sociologia della devianza all’università di Palermo, studiosa dei rapporti fra Chiesa cattolica e mafie –, anche la Chiesa siciliana comincia a porsi esplicitamente il problema mafia dopo decenni caratterizzati da silenzi, forme di “coabitazione”, episodi di compromissione con esponenti mafiosi».
«In particolare – prosegue Dino – tra il 1973 e il 1982, la Conferenza episcopale siciliana parla più volte delle moderne forme di gangsterismo mafioso, dell’accumulazione parassitaria, della violenza che affligge la Sicilia, esortando le comunità ecclesiali a un ruolo educativo soprattutto dei giovani. Il tema però resta perlopiù confinato nei documenti. Non ha ricadute diffuse e univoche nella prassi pastorale di vescovi e parroci. Si assiste ad un procedere ondivago, con avanzamenti, arretramenti e spaccature profonde, quando ad essere chiamati in causa sono le questioni cruciali o soggetti interni alla Chiesa stessa. Il punto di svolta sono le prassi concrete, quella “efficacia performativa” di cui parla il documento dei vescovi, che dovrebbe non solo “interpellare i mafiosi” ma anche portare gli uomini di Chiesa a riflettere sulle scelte concrete da intraprendere nel quotidiano esercizio del loro ministero».
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