«Quando ho capito che potevo dare un senso a tutti quegli anni che non fosse solo vedere le mie foto sulle copertine di Time o Newsweek, sono letteralmente ringiovanito». A raccontarcelo, al telefono, è Eduardo Castaldo. Napoletano classe 1977, ha già vissuto molte vite: anni di successo da fotogiornalista, poi fotografo sui set – i suoi scatti da L’amica geniale di Saverio Costanzo sono stati esposti più volte, ha poi lavorato con Matteo Garrone, Alice Rohrwacher e molti altri – infine street artist o «artivista», come si definisce oggi. Trasformazioni in cui le esperienze personali sono strettamente legate ad accadimenti più grandi. Per Castaldo la Palestina è terra di elezione, ci ha vissuto più di quattro anni dalla fine del 2007, «quando la mia ex compagna, madre di mio figlio, è andata lì per lavorare con una Ong». Ha quindi documentato con i suoi scatti l’operazione Piombo Fuso, prima di spostarsi al Cairo e di ritrovarsi nel mezzo della rivoluzione egiziana: quelle foto piene di energia gli varranno il premio World Press Photo nel 2012. Ma Castaldo ha iniziato a soffrire sempre più la contraddizione di sentirsi al servizio di una narrazione distante, se non opposta, a quella vissuta sul campo, e decide così di abbandonare il mestiere. «Per tempo non ho toccato il mio archivio perché non mi sentivo legittimato ad utilizzare quelle foto, a venire in Italia e a esporre quelle persone su un muro in una galleria, magari vendendo i loro volti e sentendomi dire che sembrano dei Caravaggio». Ecco però che nuove vie espressive sono pian piano emerse fino agli interventi artistici odierni per le strade di Napoli in supporto alla Palestina, diventati «virali» sui social. «Agire nella mia città non significa, per me, solo resistere per loro che sono a Gaza; significa resistere per noi stessi, per i nostri spazi di libertà» afferma Castaldo, che si prepara ad esporre un reportage inedito realizzato in quelle terre nel 2009, tra un mese, ai Magazzini fotografici.

Come hai iniziato a fare il reporter fotografico?

Ho comprato la mia prima macchina fotografica con l’idea che sarebbe stato il primo passo per fare cinema, quella era la mia ambizione all’epoca e in realtà lo è tutt’ora. Ma poi ho dovuto trasformare questa passione in un lavoro quando stava per nascere mio figlio. Ho pensato di realizzare un reportage sull’emergenza rifiuti a Napoli, quando era ancora una notizia locale, e nel momento in cui una delegazione di giornalisti stranieri arrivò in Campania io ero l’unico con un lavoro già pronto. Così mi sono trovato a lavorare immediatamente coi giornali internazionali: la prima foto che ho pubblicato in vita mia è uscita a mezza pagina su «Le Monde», e nel giro di una settimana avevo già lavorato con «Der Spiegel» e «El Pais». Ho saltato tutta la gavetta insomma. Ma ho sempre avuto grossi dubbi sul ruolo di fotogiornalista, che è caratterizzato da enormi ambiguità: da un lato si vivono delle esperienze molto forti e drammatiche, ma poi si lavora per giornali che forniscono una rappresentazione che non corrisponde al proprio vissuto.Tutti ti guardano poi come se fossi un eroe che rischia la vita per far emergere la verità, ma spesso le persone fanno questo lavoro mosse da un’enorme dose di adrenalina, di desiderio di successo, di sentimenti che poco hanno a che fare con l’etica. Così ho deciso di abbandonare completamente il mestiere, e ne sono stato molto felice.

Cosa pensi di come la guerra in Medio oriente viene rappresentata oggi?

Credo che ormai la maschera sia calata: se accendiamo la tv in un giorno in cui ci sono 100 civili uccisi, i nostri tg aprono con un servizio che parla di antisemitismo, e poi in coda dicono magari che ci sono state delle vittime a Gaza. Questo per me è manipolare la realtà, non si tratta di avere una visione parziale, ma di coprire dei crimini in maniera lucida, e di essere complici di un genocidio. I giornalisti sul campo vengono poi declassati semplicemente perché palestinesi, come se solo gli occidentali sapessero fotografare o raccontare questo conflitto.

Eduardo Castaldo

I social media, in questo senso, permettono una diffusione più diretta, anche se non mancano le criticità.

Ho iniziato a fare interventi di street art legati alla Palestina molto tempo prima di questo conflitto, ma dopo il 7 ottobre sui social c’è stata un’enorme censura nei miei confronti. Quando ho modificato la pubblicità della Nike «Just do it», la foto aveva raggiunto in un giorno milioni di utenti, numeri enormi, ma sono stato subito oscurato su TikTok. Anche su Facebook i miei post vengono silenziati, al momento solo su Instagram riesco ad avere una libertà molto parziale. Dico parziale perché molti degli utenti che ricondividono i miei post vengono bloccati o minacciati di venire bloccati, soprattutto nel mondo occidentale, mentre il social non interviene con i tanti contatti arabi che mi seguono. Come per dire: tenetevi per voi il vostro pianto, l’importante è che questo «morbo» non sconfini.

Questi ultimi tuoi interventi di street art ricordano molto il détournement situazionista, in cui rielabori il senso di materiali di propaganda o pubblicitari già esistenti.

È vero ma l’ho scoperto dopo, ho fatto queste opere spontaneamente, non mi sono ispirato a loro. Il senso per me era quello di modificare un linguaggio comune, così da arrivare soprattutto a chi non condivide le mie idee con l’obiettivo di metterli un po’ in crisi. Che si tratti di una foto strappata che rivela qualcosa sotto, o di incollare nuove parti su un poster già esistente, aggiungo dei livelli di significato a quello lineare iniziale, mostrandone il carattere fallace.

Opera di Eduardo Castaldo

Sulla linea della street art, sei riuscito a utilizzare in maniera nuova il tuo archivio fotografico.

Sì, è stato possibile per me rimettermi in contatto con quei lavori quando ho ricontestualizzato le foto. Faccio un esempio: gli scatti della soppressa rivoluzione egiziana, le ho esposte tutte accatastate a terra, coperte con un telo semitrasparente, così da essere visibili solo parzialmente. Era una sorta di messa in scena della repressione, e di come i movimenti fossero stati «messi in soffitta». Questa per me è stata una rivelazione, perché ho capito che c’erano dei modi che che mi permettevano di restituire alle foto le mie esperienze. A Gaza, dopo i bombardamenti, le persone si lasciano fotografare nella speranza che tu possa dare voce alla loro sofferenza, quindi è come se si facesse loro una promessa. Nel momento in cui sento di rispettarla, allora mi sento anche in diritto di utilizzare quegli scatti. I primi interventi di street art sono stati infatti delle foto trasformate in stencil e modificate, come quella della signora che butta un secchio d’acqua dalla finestra sui soldati israeliani che salgono su una scala. Quelle erano foto scattate durante un ingresso in un campo profughi, in cui i soldati salivano sui muri.

Questi interventi li fai a Napoli, la tua città, dove sei tornato a vivere. Che valore ha per te?

È fondamentale, d’altronde rappresentare Napoli come una città antisionista significa continuare un discorso che non nasce certo da me, i napoletani hanno sempre sostenuto la causa palestinese. La colonizzazione non riguarda solo i territori ma anche il pensiero e il linguaggio, ed è un processo che avviene anche qui.