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L’Articolo uno della nuova sinistra

L’Articolo uno della nuova sinistraArturo Scotto, Enrico Rossi e Roberto Speranza – lapresse

Roma La nuova "Cosa" che tiene insieme gli scissionisti del Pd e i fuoriusciti da Sinistra italiana debutta tra molti militanti e senza D'Alema e Bersani che non si fanno vedere per lasciare spazio ai quarantenni

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 26 febbraio 2017

Sabato mattina al vecchio mattatoio di Roma, occupato negli anni 80 dal movimento e strappato all’abbandono dai ragazzi Villaggio Globale. Oggi è la Città dell’altra economia, meta della sinistra bio e felicemente decrescente in vari sensi, e forse tanto felicemente in realtà no. «Fossimo a Parigi sarebbe il Beaubourg», sospira Nico Stumpo, già uomo-macchina del Pd bersaniano, da pischello qui ha visto un indimenticabile concerto dei Mano Negra.

La musica è cambiata. Qui oggi nasce Democratici e progressisti, acronimo ardito, «Movimento per i democratici e progressisti, semmai Mdp» corregge Chiara Geloni, già portavoce di Pier Luigi Bersani. Un «centrosinistra di lotta e di governo», il manifesto si intitola Art.1, quello della costituzione. «Parole straordinarie, ma ancora un’incompiuta» spiega Roberto Speranza, «il nostro primo punto è dare risposta al dramma sociale del lavoro, i giovani innanzitutto». Vi confluiscono due scissioni parallele, quella dal Pd (una ventina di deputati, 13 senatori) e quella da Sinistra Italiana (17 deputati e tre di ritorno dal gruppo misto).

Martedì i gruppi parlamentari, oggi c’è «da fare un nuovo inizio» dice ancora Speranza. «Jobs act, referendum sulle trivelle e scuola: in questi anni abbiamo vissuto una frattura tremenda tra il popolo e la sua rappresentanza. E’ il momento di ricucire, di ricostruire il centrosinistra. Serve una nuova radicalità e il coraggio di essere forza di governo». Nel Pantheon ci sono Sanders, Corbyn e Hamon, ma lui attacca con una citazione di Aldo Moro.

Nella calca spuntano facce di sinistra fin qui variamente collocate: Ferrara, Fava, Bordo, Zoggia, Gotor, Piras, Roberta Agostini, Folino, D’Attorre. Nella calca i giovani stanno più a loro agio: Marco Furfaro, Mapi Pizzolante, Tommaso Sasso.

Elvira, 29 anni, occhi a mandorla, del movimento italiani senza cittadinanza, dal microfono chiede l’approvazione dello ius soli. Benedetta, 23 anni: «Riprendiamoci le parole: se sei socialista dici socialista, se sei liberista allora confessa».

Troppo piccola la sala per contenere la diaspora della sinistra, i comitati del No, le associazioni. <È tutto un abbraccio, una pacca sulla spalla, ’compagni’ che non si vedono da tempo e altri che si sono visti fino a ieri ma in un altro partito. Gente che «via dal Pd? Mai», come Simona Nicolai, sezione Ponte Milvio: un mese fa era al lancio della ’cosa’ di D’Alema e gli aveva detto: «Tutto giusto, ma bisogna restare nel Pd». Simona oggi è qui, con l’amica Maghi. Nel suo partito a un certo punto è successo qualcosa se persino il presidente della Toscana Enrico Rossi, granitico nel suo ’diamo battaglia da dentro’, ha deciso di tirare su l’àncora. Racconta: «Per me è stato all’assemblea nazionale. Quando neanche il tuo segretario cerca di ricucire, quando manda gli ex Pci a bastonarti, capisci che non c’è più rispetto: ho preso le mie cose e sono andato via».

Guglielmo Epifani sta al centro di un capannello di sindacalisti Cgil, lui ex segretario loro ma anche di Renzi: «Il sindacato si è sentito solo. Noi ci abbiamo provato fino all’ultimo, ma con quelle regole era inutile».

Un logo non c’è, ci si penserà quando si voterà.  E in serata i detentori di Democratici e progressisti, tre esponenti del Pd che hanno depositato nome i simbolo alla camera nel 2014, ipotizzano azioni legali. Il simbolo è invece la prima frase della Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», «la nostra identità», dice Speranza, ma anche il testo galeotto: «Il referendum del 4 dicembre è stato una svolta per tutti», dice Massimiliano Smeriglio, vicepresidente della Regione Lazio, che viene da Sinistra italiana: da lì se ne sono andati 17 deputati, restano in 13 rimasti. «Dobbiamo costruire un movimento popolare a partire dai territori. Basta parlare di scissionisti, l’unica scissione è quella avvenuta con il nostro popolo. Oggi nasce un altro tassello, l’11 marzo è in programma la partenza di Campo progressista con Giuliano Pisapia».

Qui c’è un punto delicato. I demoprogressisti hanno tante anime. C’è anche quella dalemiana – il presidente di Italianieuropei non c’è e non c’è neanche Bersani, per non rubare la scena ai quarantenni – ma anche, attraverso gli ex Si, la rete dell’ex sindaco di Milano. C’è da scommettere che non sarà facile amalgamarle. Così come per gli ex Si non sarà facile dare fiducia al governo Gentiloni: «Aspettiamo discontinuità». Già si segnalano ad esempio differenze sul decreto Minniti.

Sbuca Stefano Fassina: l’ex viceministro del governo Letta oggi è l’anima più radicale di Si: «Sono tutti compagni di strada, collaboreremo». Ma sarà complicato anche ricomporre i cocci delle scissioni consumate.

I rapporti sono tesi. Così se a Speranza si chiede se non teme che la candidatura di Andrea Orlando blocchi la fuga dal Pd, risponde gelido: «Non mi interessano più le primarie del Pd, sono un gioco di figurine».

Arturo Scotto consiglia: «È finito il tempo dei rimpianti. È il momento di rimetterci in cammino». Chiede la calendarizzazione del referendum per l’abrogazione dei voucher, Speranza applaude, Epifani avverte: se non si cambiano lo voto. Gotor lo vota di certo: «L’ho anche firmato». Smeriglio parla di reddito minimo, parte l’applauso. Rossi: «Davanti a noi ci sono grandi spazi, saremo una forza aperta con grandi ambizioni. Riprendiamoci il nostro blocco sociale: povera gente, ceti medi, ma anche il capitale è nostro amico quando aiuta a produrre ricchezza per tutti. Saremo maggioranza».

La nuova “cosa” è variamente quotata dai sondaggi: dal 2 al potenziale 8 per cento, ma prima del test elettorale è tutta da costruire. A giorni l’annuncio del primo appuntamento di popolo.

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