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L’aria gelida di Burj el-Shemali. Con i fondi tagliati all’Unrwa «rifugiati palestinesi senza futuro»

L’aria gelida di Burj el-Shemali. Con i fondi tagliati all’Unrwa «rifugiati  palestinesi senza futuro»Murale con il logo dell’Unrwa nel campo profughi di Burj al-Shamali a Tiro – Getty Images

Reportage dal campo profughi più vicino alla frontiera con Israele A Gaza sospendere gli aiuti è disumano, ma anche in Libano, Siria e Giordania l'impatto sarà devastante. Lo sconforto di Abu Wassim: «Nessun codice penale può giustificare una simile ritorsione»

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 1 febbraio 2024
Pasquale PorcielloTIRO (LIBANO)

Ci vuole molto più tempo del solito a riempire il minibus a 15 posti per Tiro fermo all’autostazione di Cola, quartiere a sud di Beirut. Non è che ci siano orari precisi per le partenze: si aspetta che arrivi gente, che si riempia almeno per due terzi in modo da non fare la corsa a vuoto, e poi si parte. Nessuno va più a sud, a meno che non sia strettamente necessario. La strada pure è vuota, nonostante l’ora di punta.

IL CAMPO PROFUGHI di Burj el-Shemali, tre chilometri a sud-est di Tiro, è assieme a quello di Rashidieh il campo più a sud del Libano, quasi a ridosso del confine dove si combatte da 117 giorni senza tregua. L’aria è gelida, piove. Entriamo da un ingresso secondario e ci avviamo verso uno dei pochi centri per l’infanzia e l’unica scuola di musica del campo gestiti da Abu Wassim, distinto e tenace anziano uomo palestinese che qui tutti conoscono. La stratificazione di case, i vicoli strettissimi e irregolari dove non arriva il sole né d’estate, né d’inverno e dove o l’afa o il freddo ristagnano, i fili della corrente aggrovigliati e sospesi in aria, i muri scalcinati, gli infissi di ferro ghiacciati, le profonde pozzanghere nelle stradine dissestate, rendono in un colpo d’occhio l’idea di una permanente provvisorietà. L’umidità arriva anche portata dal vento: dall’altro lato della strada il mare è in tempesta. C’è una calma che stride con quello che sta accadendo da mesi tutto attorno.

«NOI NON SIAMO FINANZIATI da Unrwa, ma le scuole e le cliniche sì. Tagliare i fondi vuol dire tagliare ulteriormente fuori dal mondo i palestinesi che sono nei campi». Arriva direttamente con grande lucidità e senza sentimentlismi al cuore della questione Abu Wassim. «In Libano le scuole e gli ospedali sono privati e qui nessuno se li può permettere. Cos’è questa punizione collettiva? Ammettiamo pure che questi dodici all’interno di Unrwa abbiano appoggiato Hamas, partecipato agli attentati del 7 ottobre -ci sono delle accuse, non c’è stato un processo né interno a Unrwa, né in un tribunale e quindi nessuna sentenza ancora- nessun codice penale o civile giustifica una ripercussione del genere».

Martedì circa duecento palestinesi si sono dati appuntamento al quartier generale di Unrwa a Jnah, pochi chilometri a sud di Beirut, in segno di protesta contro il blocco dei fondi da parte di alcuni paesi tra cui l’Italia. «Bloccare i fondi mette a rischio il futuro dei rifugiati palestinesi», «Gaza ha bisogno di aiuto immediato», «Unrwa è il mio diritto fino a quando non ritorno in patria», alcuni degli slogan dei manifestanti.

L’AGENZIA ONU è da giorni in silenzio stampa, ma ieri ha rilasciato un comunicato nel quale si legge: «La sospensione dei fondi (…) avrà un impatto sulla sopravvivenza di oltre due milioni di civili, metà dei quali sono bambini, che dipendono dagli aiuti Unrwa a Gaza. La popolazione sta affrontando fame, carestia e lo scoppio di malattie sotto i continui e indiscriminati bombardamenti israeliani e la privazione deliberata di aiuti».

«Se a Gaza sospendere i fondi è disumano vista la crisi in corso, in Libano, in Giordania, in Siria vuol dire fare in modo che migliaia di palestinesi a breve rimarranno senza assistenza. Chi può prevedere che conseguenze avrà tutto questo all’interno dei campi, qui in Libano e in tutta la regione?», chiosa Abu Wassim. I campi sono qui in tutto dodici. Nei registri il numero dei palestinesi in Libano è di circa mezzo milione, ma si tratta di cifre poco accurate. Un palestinese non può comprare casa, non può diventare – se non in casi eccezionali – cittadino libanese, non gli è permesso aspirare a posizioni lavorative di rilievo.

LA QUESTIONE PALESTINESE in Libano è sentita e controversa. Dopo il Settembre Nero (1970) e l’espulsione dalla Giordania dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), Arafat e i suoi si spostarono a Beirut e l’organizzazione prese attivamente parte nella guerra civile libanese (1975-90). Tra il 16 e il 18 settembre 1982 le Forze libanesi (destra estrema cristiana) con l’appoggio delle IDF (forze di difesa israeliane) compirono un massacro di circa 3500 persone – palestinesi e sciiti – nel quartiere di Sabra e nel campo di Shatila, periferia della capitale libanese. Molta della retorica storica e odierna di Hezbollah e parte della sua autolegittimazione è incardinata sul discorso della resistenza e su quello della liberazione della Palestina.

UNA STRETTA SUI PALESTINESI, sui campi, può avere conseguenze devastanti, tenendo anche conto che il piccolissimo Libano accoglie circa due milioni di siriani ed è nella peggiore crisi economico-finanziaria della sua storia da oltre quattro anni, senza contare la guerra tra Hezbollah e Israele.
Abu Wassim accende una stufetta elettrica e mangia dei mandarini che profumano l’aria, mentre sorseggia il caffè. È molto accogliente. Il gelo, in questa oasi dove tutto è Palestina e da dove l’inaccessibile Palestina è solo a pochi chilometri, diventa, almeno per qualche ora, un po’ più clemente.

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