Durante la Seconda Intifada ho partecipato a molte iniziative di solidarietà con il popolo palestinese, qualche volta ho rifiutato. Per esempio quando mi chiamò una ragazza di “Azione Giovani” le attaccai il telefono.

Un’altra volta trovai in sala dei consiglieri comunali di An (Fini era appena stato allo Yad Vashem – Giorgia Meloni ci andò anni dopo, Fiuggi à la carte) che credevano apprezzassi la loro presenza… Non me ne andai perché il compagno palestinese mi pregò di non lasciarlo solo. Appena iniziai a parlare però se ne andarono loro.

Molto più spesso mi è capitato di sentirmi dire «vieni alla nostra iniziativa, così nessuno ci può accusare di antisemitismo» o «se vieni tu siamo al riparo da accuse strumentali di antisemitismo». A questo tipo di affermazioni ho sempre risposto: accuse di antisemitismo strumentali o false si evitano solo non essendo antisemiti. Nella speranza che gli interlocutori capissero che già quella loro richiesta di fatto lo era.

Quello che mi preoccupa non è qualche cartello o appelli per le manifestazioni francamente irricevibili che la maggioranza dei partecipanti non ha letto, né bandiere della Palestina o “from the river to the sea”, slogan per altro condiviso da esponenti della destra israeliana che gioiscono perché lo sky-line di Gaza sta interferendo sempre meno con la loro vista sul mare.
No, non è questo che mi crea disagio.

Ne fa parte invece il fuoco incrociato di propaganda tossica di tifoserie amorali, dove non è mancato nemmeno chi ha parlato di «potere degli ebrei sui media». Non ho ancora sentito evocare il complotto demo-pluto-giudaico, ma diversi ci sono andati abbastanza vicino.

Ne fa parte anche l’affermazione astorica che l’antisemitismo non è contro gli ebrei perché i palestinesi sarebbero «semiti». Non serve scomodare fonti storiche, in qualsiasi enciclopedia si legge che è una sciocchezza.

Ma questa è la parte facile, perché è tutto abbastanza evidente.

Di questo clima terribile fa invece parte per esempio l’ossessione di negare che il 7 ottobre è avvenuto un massacro, di cercare ogni possibile appiglio per minimizzare la portata dell’orrore che è stato, o rimuoverlo del tutto dal discorso. O vedere persone al sopra di ogni sospetto che si precipitano a negare notizie su singoli orrendi episodi senza controllare le fonti, salvo poi scoprire che queste magari erano relativamente affidabili.

Sono discussioni sulle chat antirazziste, sui social, ingenue domande di persone amiche a comporre questo clima, piccole cose, piccole ma tante.

Più difficile dover prendere atto che tutto questo è indice di quell’antico mai sopito sentimento di paura e diffidenza nei confronti dei diversi più uguali di tutti, intrinsecamente malvagi.

Come mi ha scritto oggi un amico «in questo periodo terribile mi sto rendendo conto che c’è qualcosa di molto più profondo e “autoctono”, di una visione più simbolica che reale della situazione in Israele/Palestina, in cui “l’ebraicità” (e non solo Israele o il Sionismo) viene percepita come l’incarnazione (o forse meglio, la fonte) di tutti i mali del colonialismo euro-statunitense. Non è sicuramente nuovo vedere gli ebrei, l’ebraismo, e l’ebraicità in termini simbolici, come incarnazione del male assoluto (secondo i propri gusti e scopi), ma credevo/speravo che nella sinistra moderna dei diritti umani e del antirazzismo non fosse così».

Non c’entra l’antisionismo o Israele e il suo governo che per altro non perde occasione di soffiare sul fuoco. L’antisemitismo a Israele ha sempre fatto comodo e non lo ha mai seriamente contrastato.

Negarlo soprattutto non aiuta a costruire uno schieramento ampio che chieda con forza il cessate il fuoco immediato per fermare questa orrenda carneficina che sta mettendo un macigno su ogni residua speranza di una possibile futura convivenza di pace, giustizia e uguaglianza. Uno schieramento che non avrebbe remore nell’alzare la voce anche in difesa di quattro piccole pietre d’inciampo.