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L’Antitrust Usa contro i monopolisti della Rete

Cambia il vento Big Data, tutto il Gotha della Silicon Valley finisce sotto i riflettori del Congresso

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 25 luglio 2019

Manca solo l’atto ufficiale e poi la più estesa inchiesta antitrust americana potrà prendere il via. A finire sotto i riflettori del Congresso statunitense non sarà infatti una impresa, come è accaduto nel passato remoto e prossimo, quando sotto accusa è finita la Att, i giganti delle automobili o la stessa Microsoft, ma l’insieme del Gotha della Silicon Valley, da Google a Facebook, da Amazon a Apple. Per la prima volta della storia a stelle e strisce, un intero settore sarà dunque coinvolto in un’azione politica bipartisan tesa a modificare i rapporti di mercato e economici. E non è detto che tale rivoluzione dall’alto del capitalismo Usa – un vero e proprio atto di distruzione creativa, nelle intenzioni di chi lo promuove – sia coronata da successo come sperano, seppur da sponde opposte, democratici e repubblicani.

I Big Five della Rete non sono molto amati dalla nuova leva dei democratici. Bernie Sanders ha condannato le condizioni di lavoro in Amazon; l’influente senatrice democratica Elizabeth Warren ha preso più volte posizione contro i colossi Internet, mentre l’agguerrita Alexandria Ocasio-Cortez non ha nascosto il suo appoggio alle, vincenti, mobilitazioni contro il sindaco democratico Bill De Blasio e il governatore di lungo corso Andrew Cuomo, favorevoli alla proposta di Amazon di costruire il suo secondo quartier generale a New York. Segnali inequivocabili di una inversione di tendenza nelle preferenze democratiche – ricambiate in passato con generosi finanziamenti elettorali – verso la Silicon Valley.

Neppure tra i populisti trumpiani c’è molta simpatia verso la Silicon Valley. Mark Zuckerberg, Jeff Bezos, Tim Cook, Sergej Brin e Larry Page sono infatti considerati i rappresentanti di quel mondo degli affari cosmopolita e metropolitano ostile all’America profonda che ha fatto eleggere Donald Trump, il quale ha assicurato un impegno diretto della sua amministrazione nella procedura antitrust. Secondo il Wall Street Journal sarà infatti Jeffrey Rosen, cioè il viceministro della Giustizia, a gestire l’operazione.

Che Silicon Valley sia la bestia nera di Trump lo testimoniano i tweet di soddisfazione per la multa di cinque miliardi di dollari inflitta a Facebook per violazione della privacy in relazione all’affaire Cambridge Analityca o quelli pigolati per l’ipotesi di multa contro YouTube, cioè Google, accusata di aver “profilato” i minori che si sono collegati al sito per vedere i cartoni animati preferiti. Sono inoltre mesi che Trump chiama alle armi i giganti della Rete nella guerra commerciale contro la Cina in nome della sicurezza nazionale, minacciandoli di considerarli una quinta colonna del nemico se non rispondevano all’appello.

Ma c’è un’altra ombra che minacciosa il futuro della Silicon Valley, che spiega la proposta dell’antitrust. Lo strapotere di Google, Amazon, Facebook, Apple è una concentrazione inusuale e paralizzante della ricchezza che favorisce l’inaridimento di una linfa vitale del capitalismo americano, la ricerca scientifica, fattore ritenuto molto più vitale per il il mondo a stelle e strisce e che preoccupa molto più della, relativa, superiorità di Huawei nei telefoni cellulari.

I giganti della Rete sono ritenuti protagonisti di uno scambio tra gratuità di alcuni servizi e cessione da parte degli utenti della Rete della proprietà dei loro dati personali alle imprese che li assemblano, elaborano. I Big Data sono una vena aurifera sulla quale, attraverso l’advertising, si regge l’economia di Rete. Ma Big Data vuol dire machine learning, intelligenza artificiale, produzione di software, ingegneria e fisica dei materiali organici e sintetici. Su questi temi le imprese investono, certo, ma sono sopratutto coinvolte nei progetti lautamente finanziati dal Congresso e dal Pentagono. Al di là della retorica neoliberista imperante, lo Stato americano ha cioè continuato a investire nei settori di punta della ricerca scientifica. E vale la legge che i risultati delle ricerche sono di pubblico dominio fino alla soglia della loro applicazione commerciale.

Una regola che in Rete ha funzionato come spinta alla formazione di un regime misto tra proprietà intellettuale e open source che ha favorito l’innovazione. E la formazione di monopoli. Quel che segnala la decisione di una procedura di inchiesta antitrust è che tale meccanismo ormai non garantisce più né percentuali di sviluppo economico socialmente soddisfacenti negli Stati Uniti – occupazione, salari, redditi, popolazione attiva – né un recupero di una loro leadership economica su scala mondiale. La destrutturazione dei monopoli è quindi un tentativo di rispondere alla perdita di una spinta propulsiva del capitalismo delle piattaforme. Con una incognita poco quantificabile nei suoi effetti.

Il settore dei Big Data è sotto attacco. Tante le critiche per la violazione della privacy; incalzanti le accuse di manipolazione alla democrazia e alla vita pubblica, diffuso socialmente il rigetto per il potere di Silicon Valley. L’esito dell’Antitrust potrebbe portare allo spostamento definitivo del baricentro del potere mondiale nel Pacifico. In assenza di un potere politico multipolare come è stato quello della prima globalizzazione, gli unici ad avvantaggiarsi dalla perdita di potere di monopoli globali come Google, Facebook, Apple, Amazon potrebbero essere proprio i loro fratelli gemelli, targati però made in China. Sarebbe una eterogenesi dei fini che l’astuto e scaltro Trump non può proprio mettere in campo, vista la sua incapacità di guardare oltre il proprio ciuffo di capelli posticcio.

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