L’acqua che tira in California
Stati uniti Dopo 4 anni di siccità e con le scorte della Sierra Nevada ridotte al minimo, la California è sull’orlo di una crisi di nervi. La penuria di acqua, la risorsa che ha fatto di questa regione semiarida il paniere e la locomotiva economica degli Usa, obbliga a ridimensionare quel «lifestyle» che ha scolpito nell’immaginario mondiale l’identità californiana
Stati uniti Dopo 4 anni di siccità e con le scorte della Sierra Nevada ridotte al minimo, la California è sull’orlo di una crisi di nervi. La penuria di acqua, la risorsa che ha fatto di questa regione semiarida il paniere e la locomotiva economica degli Usa, obbliga a ridimensionare quel «lifestyle» che ha scolpito nell’immaginario mondiale l’identità californiana
La parola del momento in California è water shaming: non erano passate due settimane dalla dichiarazione d’emergenza del governatore Jerry Brown che il nuovo termine è stato registrato nel novero dei neologismi, ultimo tormentone slang del lessico pop californiano.
La «gogna acquatica» è l’ultima propaggine dell’emergenza siccità, inevitabile di questi tempi social, quando è così facile svergognare il vicino che insapona il Suv con la pompa sempre accesa o il dirimpettaio che irrora il marciapiede con gli spruzzatori al massimo a mezzogiorno. Il «bullismo idrico» è dunque destinato a diventare un meme dell’estate che si avvicina senza l’ombra di una nuvola in cielo e i bacini dello stato sotto il livello di emergenza.
Razionamento!
Il mese scorso Brown ha annunciato il razionamento chiedendo alle città di imporre agli utenti una drastica riduzione del 25% nei consumi d’acqua dei cittadini.
Dopo quattro anni di siccità e con le scorte dei nevai della Sierra Nevada ridotte al 20% del normale, lo stato più popoloso d’America è sull’orlo di una crisi di nervi. La penuria di acqua, la risorsa che ha fatto di questa regione semi arida il paniere e locomotiva economica d’America, obbliga a ridimensionare le aspirazioni fondative di sviluppo e di lifestyle che fanno parte dell’identità californiana.
E nell’immaginario collettivo l’ideale Eldorado comincia a somigliare a uno dei film distopici sfornati da Hollywood; se non Mad Max allora almeno Interstellar coi suoi campi di mais minacciati dal nuovo dust bowl: un luogo e un tempo su cui aleggia l’inquietante sensazione di aver raggiunto e forse superato i limiti dello sviluppo sostenibile.
I mercanti
Le ripercussioni sono sempre più evidenti: la scorsa settimana ci sono stati nuovi picchetti davanti alle sedi della Nestlé a Los Angeles e Sacramento. Fra i comparti della multinazionale alimentare infatti c’è l’acqua in bottiglia e da anni la Nestlé Waters North America commercializza acqua sorgiva californiana con il marchio Arrowhead, imbottigliandone ogni anno 2 miliardi e mezzo di litri alla sorgente montana vicino a San Bernardino e vendendola in tutto il paese.
Con i cittadini costretti ad estirpare prati e aiuole per sostituirli con la ghiaia e fare la doccia con il cronometro, l’export di acqua californiana a favore degli utili Nestlé, d’improvviso appare davvero inaccettabile – e lo scalpore coalizza nuove militanze. «È scandaloso e immorale», ha dichiarato Laura Leavitt, portavoce del Courage Campaign, una associazione no-profit di Los Angeles che ha fatto circolare numerose petizioni online per revocare la licenza alla Nestlé. L’indignazione generale ha ridato impulso al movimento ambientalista contro le bottiglie di plastica e preso di mira altri commercianti di acqua potabile come Walmart e Starbucks.
La catena del caffè seriale – per la verità – vista l’aria che tira ha preferito interrompere volontariamente le operazioni californiane della subsidiary Ethos Water, la marca di acqua in bottiglia venduta nei propri negozi.
D’ora in poi l’acqua di Starbucks proverrà da fonti al di fuori dello Stato. Con quasi 40 milioni di abitanti e previsioni che non escludono la peggiore siccità in mille anni, gli umori sono decisamente incupiti. Il modello di sviluppo che è il vangelo mitopoietico della California, si scontra ora con scompensi ambientali e demografici che prevedibilmente interesseranno sempre più spesso anche altre regioni.
In altre parole, la crisi californiana presagisce dinamiche che potrebbero presto essere assai più comuni.
La «commodificazione»
L’emergenza investe direttamente il rapporto fra ambiente, sviluppo e capitale, riproponendo in modo concreto una questione rimasta finora in gran parte accademica: l’acqua è una risorsa pubblica, un bene commerciale o un diritto universale?
La risposta è condizionata da una storia che a ben vedere, come in molte economie di mercato, ha previsto sin dall’inizio una sistematica «commodificazione» dell’acqua.
In California questo ha permesso lo sviluppo strepitoso di una vasta area semi desertica dove metropoli e colture intensive sono sorte grazie all’importazione della risorsa su enormi distanze.
Come dimostrano gli acquedotti di 500 km che riforniscono 20 milioni di abitanti nella California del sud, l’atto fondativo dello stato (e dell’Ovest americano) è stato il commissariamento e la privatizzazione – di fatto – delle acque. Ora che l’esplosione demografica e il mutamento climatico hanno prodotto l’inevitabile, le soluzioni prospettate sono tutt’altro che semplici o indolori.
Dopo l’annuncio del governatore sulle riduzioni obbligatorie dei consumi, si è immediatamente scatenato il putiferio legale e amministrativo.
Le società delle acque di molte città (in totale ce ne sono più di 400) si sono subito ribellate all’idea di essere precettate come «polizia dell’acqua», sottolineando di non avere personale utile ai controlli. Un gruppo di utenti della cittadina di San Juan Capistrano a sud di Los Angeles ha fatto un ricorso in tribunale e il mese scorso una Corte federale ha giudicato illegittimi i tariffari «progressivi» che prevedono costi che si moltiplicano rapidamente oltre date soglie di consumo.
Far pagare l’acqua (molto) cara oltre certi limiti è lo strumento principale per incentivare il risparmio, ma il giudice del quarto distretto ha ritenuto illegali le tariffe perché arbitrarie e «non basate su costi effettivi», equiparando in pratica le penali ad aumenti ingiustificati nei prezzi di un prodotto.
Lotta di classe a Beverly Hills
Inoltre se si devono imporre limiti ai consumi sorge il problema di quali possano essere – e per chi?
Nel vagliare gli effettivi consumi per allocare equamente i razionamenti, si è scoperto ad esempio che nel comune di Beverly Hills i consumi quotidiani pro-capite sono quadrupli rispetto a quelli della circostante Los Angeles, un modello replicato nello Stato ovunque sorgano ville mastodontiche circondate da verdi praterie decorative con piscine d’ordinanza o campi da golf impiantati sulle sabbie del deserto ad uso di facoltosi avventori.
Una geografia del benessere che, non sorprendentemente, ha bisogno di approvvigionamenti idrici di gran lunga superiori a quelli della cittadinanza ordinaria. La crisi ecologica da ora licenza di trattare apertamente argomenti finora tabù di parlare, come fanno alcuni, di impatto ambientale dei ricchi.
Ma fra il dire e il fare c’è notoriamente di mezzo un mare (presto, si spera, dissalato e potabile) e rimane la questione spinosa di come influire sui consumi.
Per niente intimiditi dallo shaming i magnati californiani hanno replicato che, potendo permettersi di pagare qualunque tariffa o penale si voglia applicare, loro i prati non li estirperebbero nemmeno per sogno, tantomeno saranno disposti a svuotare le piscine.
Come dire: la ricerca della felicità è garantita dalla Costituzione, l’acqua, come tante altre cose, in definitiva è di chi se la può permettere.
Alla frutta: Agricoltori contro città
Ma il paradigma del mercato è davvero applicabile all’acqua del «golden state», un soprannome che deriva sia dalla febbre dell’oro, sia dall’originale color ambra dei suoi paesaggi prima che venissero irrigate? La colossale opera di reclamation, la bonifica che ha dirottato fiumi, costruito dighe e scavato canali per creare l’attuale capillare infrastruttura, è stata, in quanto sovvenzione pubblica all’industria e all’agricoltura, di fatto anche una grande opera di privatizzazione.
Lo dimostra l’arcano sistema di prelazione sull’acqua che si regge su complicate gerarchie di anzianità. Un distretto di irrigazione che sia stato ad esempio firmatario di un trattato che all’inizio del Novecento gli ha garantito determinate quote di acqua del Colorado river, ha tuttora inviolabili diritti di prelazione su quelle quote.
Dato che un secolo fa le aggregazioni urbane erano perlopiù irrisorie, sussiste la paradossale situazione in cui piccoli distretti agricoli spesso controllano ancora oggi più acqua delle grandi città – con prevedibili ricadute sul libero mercato dell’acqua. Con la grande sete, alcuni agricoltori hanno fatto due conti e capito che possono realizzare guadagni maggiori, e più prevedibili, vendendo direttamente alle città la «propria» acqua, che se la usassero per coltivare.
Un’aberrazione indicativa del fondamentale equivoco dell’acqua intesa come proprietà. Nonostante questo, alcuni propongono ora di proseguire sulla via della privatizzazione, ampliando e regolando veri e propri «water exchange» come quelli già sperimentati in Australia, nella zona di Adelaide, ad esempio, dove funziona una specie di borsa telematica privata per agricoltori per la compravendita dei diritti di irrigazione in tempo reale.
L’agricoltura è ovviamente un problema centrale. La siccità ha esacerbato le tensioni già altissime fra agricoltori e città. Per produrre il 98% dei broccoli, il 97% delle mandorle, il 89% delle prugne e una lunga lista della spesa di frutte e verdure, l’agribusiness californiano utilizza l’80% delle risorse idriche dello stato. Da un lato il dato dimostra che anche forti riduzioni nei consumi «urbani» non inciderebbero un granché sul totale.
Dall’altro è evidente che non ha senso scagliarsi «contro» l’agricoltura; come l’acqua, il cibo coltivato nei campi è più che semplice commodity ma una fonte di sostentamento di vita e forse non dovrebbe venire trattato alla semplice stregua di un bene economico. La crisi è locale ma in realtà se il paniere d’America appassisce, il problema va ben oltre i confini dello stato.
Gli agricoltori della California coltivano oltre un terzo delle verdure e due terzi delle noci e della frutta di tutto il paese e la siccità ha reso evidente l’imprudenza di una tale concentrazione produttiva, soprattutto in una regione arida, una strategia discutibile almeno quanto le sterminate monocolture industriali di soia e mais nel Midwest.
Nella migliore delle ipotesi l’emergenza servirà a rivalutare strategie agricole e ambientali: selezionare coltivazioni adatte, privilegiare microirrigazione e sistemi a goccia per minimizzare l’evaporazione, consumare e quindi allevare meno carne, il più idricamente intensivo dei cibi.
La California si vanta di una coscienza ambientalista nata dalla necessità, della leadership nelle energie rinnovabili, le normative sull’inquinamento atmosferico e l’efficienza delle auto. Al di là dell’influenza più o meno diretta del mutamento climatico, la scarsità di acqua è destinata ad essere un fenomeno sempre più globalmente incisivo.
Per rimanere laboratorio di sviluppo «progressista» la California dovrà riuscire a fare tesoro dei limiti imposti dalla siccità e usarla come stimolo alla conservazione, la purificazione e riciclo delle acque di scarico, alla dissalazione. Le strategie rinnovabili, ciò che occorre implementare globalmente per correggere errori e sprechi del passato.
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