L’Italia? Se si guarda l’ultimo report del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, il nostro Paese è al centro di uno dei 5 rettangolini che presentano le zone del globo più colpite dal climate change. L’Italia – racconta Sofia Farina – è considerata un luogo particolarmente a rischio, chiusa tra le Alpi e il Mediterraneo». Farina, 27 anni, è una Fisica del sistema terra, specializzata in Fisica dell’atmosfera, con un dottorato di ricerca all’Università di Trento in Meteorologia alpina. Oltre alla ricerca si dedica anche alla divulgazione, scrivendo per il quotidiano online L’Altramontagna, e all’attivismo, come presidente dell’associazione Protect our Winters e membro del board di Cipra, la Commissione internazionale per la protezione delle Alpi.

È stupita dal dodicesimo mese consecutivo di record delle temperature medie globali?
No, e vorrei porre l’accento su un aspetto: nonostante la conoscenza scientifica del processo in atto sia molto molto avanzata, perché all’interno dell’accademia e degli ambienti di ricerca siamo perfettamente consci di ciò che sta avvedendo, tutta questa apprensione non è riuscita a concretizzarsi in un’effettiva azione a livello globale per rallentare le emissioni. Il punto è che noi stiamo vedendo realizzarsi ciò che da tanti anni stiamo dicendo che sarebbe accaduto. Ogni mese, alla pubblicazione dei dati di Copernicus una parte di me che pensa vedi che avevamo ragione, è la prova che non siamo stati allarmisti. Questi ultimi dodici mesi destano preoccupazioni anche nella comunità dei climatologi , perché l’accelerazione sembra maggiore.

Sofia Farina
Sofia Farina

Ha partecipato alla COP28 di Dubai. Timidamente, le conclusioni accennano all’inizio della fine dell’era dei combustibili fossili. Politica e diplomazie hanno chiaro che domani è già troppo tardi?
Quel momento è stato molto formativo. Sono arrivate con idee chiare, che sono state abbastanza messe in discussione seguendo negoziati e trattative, parlando con attiviste e scienziati di tutto il mondo. Ci vuole tanto tempo per rimettere in ordine le caselle, il testo finale lo abbiamo visto costruirsi. Rientrata in Italia ho riflettuto a lungo su quell’accordo, se fosse un successo o un insuccesso. Noi chiediamo il phase out, l’uscita, era scritto ovunque, su sticker, cartelli, magliette, ma questa posizione non è stata accolta e viene da dire che continuiamo a prenderci in giro, sappiamo che è ciò che serve ma non lo rendiamo concreto. Mi sono resa conto a Dubai però che usare solo una prospettiva preclude dal considerare altri fattori: da fisica dell’atmosfera, guardo alle concentrazioni del gas serra, ma chi guarda ai conflitti sociali interni a un paese del Medio Oriente o del Sahel porta forse un punto di vista diverso e per alcuni Paesi emergenti dire da domani eliminiamo i combustibili fossili è impossibile. Riconosco poi che l’Europa rispetto agli Stati Uniti sia molto più avanzata dal punto di vista dei cambiamenti climatici, politiche di mitigazione e adattamento, anche se non stiamo andando veloci abbastanza, ma dove è rappresentato tutto il mondo il processo diplomatico non può che essere più lento. Quindi è stato un primo passo in una direzione migliore, che sarebbe stato perfetto 20 anni fa.

Da fisica dell’atmosfera, qual è il punto cruciale?
Ridurre le emissioni. Puntare a una neutralità climatica: emettere un quantità di gas serra che il Pianeta è in grado di assorbire. È l’unica chiave di volta dell’intero processo. Dobbiamo agire sulle cause (come i combustibili fossili). Oggi è come se avessimo un problema e non ce ne frega niente di affrontare le cause, pensando solo a cercare una tecnolgoia che affronti il problema. Non c’è tempo.

Si occupa nello specifico di montagna: perché è così importante per analizzare gli effetti dei cambiamenti climatici?
La montagna è un ambiente particolarmente sensibile al cambiamento climatico, un hotspot, come i Poli, cioè le regioni coperte dai ghiacci, che risentono del surriscaldamento più di altre. Lavorare sulla consapevolezza di ciò che sta accadendo nelle terre alte è fondamentale per chi le abita e si trova in prima linea ad affrontare contesti completamente nuovi, che variano con una rapidità che non permette l’adattamento. Quest’azione diventa fondamentale in particolare nel momento in cui diventa evidente che «migreremo verticalmente», che anche gli italiani stanno iniziando a spostarsi a quote più alte, perché le pianure diventano invivibili, perché il cuneo salino danneggia le terre coltivabili: dato che ci spingeremo in alto, è importante la consapevolezza di quali sono i rischi e gli impatti nelle terre alte, per preparare chi scappa da un certo contesto perché colpito dall’innalzamento delle temperature, perché sappiano che in alto non troveranno un’oasi ma un contesto molto più fragile, dove sono in corso processi molto delicati che rendono l’abitare pericoloso.

Qualche esempio?
La messa in sicurezza delle strade delle frane, una nuova forma nella gestione dei fiumi, per non rischiare la vita a causa delle inondazioni, proteggere le colture dalla grandine, costruire un’alternativa alla monocultura dello sci di discesa. La montagna è di per sé un ambiente più ostico, gli abitanti devono sapersi proteggere, per farlo devono essere preparati, tanto i cittadini quanto coloro che amministrano».

La comunità diplomatica ha chiara questa specificità italiana, tra le Alpi e il Mediterraneo?
Alla Cop28 ho avuto modo di parlarne con Grammenos Mastrojeni, diplomatico italiano, oggi Segretario generale aggiunto dell’Unione del Mediterraneo. In passato si è occupato molto anche di montagna. Mi ha rassicurato sul fatto che l’assenza della montagna tra i temi della COP28 fosse contingente, legata al modo in cui era stata definita l’agenda della Conferenza, ma che in Italia e in Europa il problema è sentito. Da una parte ci sono le coste che sono erose, dall’altra le montagne che ti si sgretolano sulla testa. Anche per questo mi impegno con L’Altramontagna ad alimentare un racconto degli effetti dei cambiamenti climatici che non tocchi solo le città e le coste.