Domani, 22 maggio, la legge 194 sull’Interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) compie 45 anni. E forse li dimostra tutti. Anche se, all’ombra del governo più a destra dal Dopoguerra, in pochi si azzarderebbero oggi a parlare di restauro del testo. Di sicuro non aspettano altro le formazioni pro-life e gran parte della compagine di governo, con obiettivi molto diversi però da quelli che muovono le donne italiane. «Non ho dubbi che, se ci fosse di nuovo un referendum oggi, avremmo lo stesso risultato del 1981», afferma convinta la ginecologa e storica attivista dei diritti delle donne, Mirella Parachini, vice segretaria dell’Associazione Luca Coscioni e segretaria dell’International Federation of Abortion and Contraception Professionals, Fiapac. Per lei la legge ha bisogno di un tagliando, sì, ma per riaffermare, con più forza che mai, il concetto di autodeterminazione.

A 45 anni dall’approvazione della legge 194, quale bilancio è possibile fare?

Innanzitutto va detto che fare un tagliando all’applicazione della legge è obbligo del governo che entro febbraio dovrebbe presentare al parlamento una relazione annuale con i dati relativi all’anno precedente. E le Regioni sono obbligate entro ogni gennaio a trasmettere i dati (art. 16, ndr). Invece l’ultima relazione è dello scorso anno, ma con i dati del 2020. Succede solo da noi: Svezia, Inghilterra, Francia… tutti pubblicano ogni anno i dati aggiornati sull’aborto. E qui siamo già nel campo della mancata applicazione della legge. Peraltro da tempo noi chiediamo di avere dati aperti e non aggregati, per capire meglio il dettaglio della distribuzione dei servizi.

Se ci affidiamo ai dati del 2020, cosa vediamo?

In quel quadro, la cosa più clamorosa che emerge è l’applicazione a macchia di leopardo della legge, assolutamente a discrezione delle Regioni. E senza alcuna conseguenza. A costo di essere noiosa, va ripetuto che ogni ospedale o struttura ha l’obbligo di coprire la domanda, e la Regione ha l’obbligo di garantire l’attuazione della legge anche attraverso la mobilità del personale. Se non lo fa, dovrebbe subire conseguenze. Come associazione Coscioni abbiamo provato a denunciare le Regioni inadempienti ma purtroppo la strada giudiziaria è difficile da percorrere, perché solo la donna che non trova il servizio disponibile può denunciare. Allora si potrebbe seguire la strada dei rimborsi extra, come quelli che vengono versati alle Regioni che ottemperano all’erogazione di alcune prestazioni sanitarie aggiuntive previste nei Lea (Livelli essenziali di assistenza, ndr). In alcune regioni sono 45 anni che la legge non è applicata.

Rileva una spaccatura tra nord e sud del Paese?

Direi di sì, in linea di massima, ma ci sono anche regioni del nord come la Val d’Aosta dove le cose non vanno affatto bene. Ma c’è un altro punto di disapplicazione della legge: l’articolo 15 prevede che le Regioni promuovano l’aggiornamento delle tecniche più moderne, più sicure e più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna. E qui ci corre l’obbligo di parlare della pillola abortiva.

La Ru486: la più richiesta. Sono stati fatti passi avanti ?

In tutti i Paesi del mondo viene privilegiata. Nei Paesi scandinavi il 98% degli aborti è farmacologico. Da noi c’è il sabotaggio dei tre giorni di ricovero obbligatori, per altro inutili perché gli eventuali effetti collaterali si manifestano alcuni giorni dopo aver preso entrambi i farmaci abortivi, quando cioè la donna è già stata dimessa. Cosicché in Italia, nel 2020, l’Ru486 è stata usata solo nel 32% delle Ivg. Percentuale che è addirittura diminuita durante la pandemia, al contrario di quanto avvenuto nel resto d’Europa. In Inghilterra e Francia ad esempio, hanno agevolato il ricorso alla tecnica, con somministrazione a casa, e aumentando da 7 a 9 settimane il limite di intervento. E, finita la pandemia, hanno convalidato queste linee guida. Tra le eccezioni italiane, la Regione Lazio, che ha subito recepito le indicazioni del ministro Speranza per abolire l’obbligo del ricovero. Va detto poi che l’aborto farmacologico, per imporsi, ha bisogno di una formazione del personale, che la legge impone all’articolo 15 e che non c’è. E così spesso accade che se la donna, una volta dimessa, ha delle complicazioni e va in pronto soccorso, i medici che la prendono in cura non hanno il know-how adatto.

Secondo l’associazione Coscioni, in Molise l’Ivg è praticata solo in una delle due strutture ospedaliere presenti sul territorio, dove però 8 ginecologi su 10 sono obiettori. E in Puglia 16 strutture su 35 hanno una percentuale di obiezione sopra l’80%. Solo per fare alcuni esempi. Ma è proprio l’obiezione di coscienza il problema?

Il problema è la gestione di questi obiettori. Vorrei che l’Ivg smetta di avere uno statuto speciale: l’obiezione di coscienza deve essere ammessa, al contrario di come avviene in Paesi quali la Svezia, che la vieta. Ma deve fare i conti con l’organizzazione del servizio. Anche in Inghilterra e in Francia c’è l’obiezione per i medici, ma senza i nostri problemi.

Nel Lazio nel 2017 ci fu un bando per assumere medici non obiettori. Quelle assunzioni sono state utili?

Certo, hanno potenziato il servizio dell’ospedale San Camillo, che è anche il centro di coordinamento regionale. Peccato che suscitarono una tale furibonda polemica da bloccare il rinnovo del bando. Un’altra cosa che potrebbe funzionare, anche se molto discutibile, è l’utilizzo dei medici gettonisti, come già avviene per gli anestesisti al San Giovanni. Voglio solo dire che le soluzioni organizzative potrebbero risolvere il problema – solo italiano – dell’obiezione di coscienza.

Con l’associazione Coscioni avete promosso l’«Intergruppo parlamentare in materia di Salute riproduttiva e Ivg» cui hanno aderito tutti i partiti tranne che Forza Italia, Lega, Fd’I e Italia viva. Qual è il vostro scopo?

Vogliamo appunto fare un tagliando alla legge per parlare dei problemi di applicazione, per richiedere dati aperti, ma anche per discutere l’aggiornamento di alcune parti della 194 che non rispondono più alle attuali esigenze delle donne. Come ad esempio l’impossibilità di procedere con un aborto terapeutico dopo 22 o 24 settimane di gestazione. Attualmente accade che, solo in caso di pericolo di vita della donna, il medico esegue l’aborto terapeutico ma è anche obbligato (articoli 6 e 7, ndr) ad effettuare una rianimazione del feto abortito. Raccapricciante. Vogliamo inoltre promuovere la gratuità di tutti i moderni metodi contraccettivi. Ma soprattutto di tutto ciò vogliamo parlarne. Abbiamo già fissato per il 20 giugno il primo seminario alla Camera a cui parteciperanno anche molti costituzionalisti. Mi sembra davvero una boccata d’ossigeno, perché è tempo di ricominciare a discutere del tema. Sono rimasta sorpresa dell’entusiasmo dei parlamentari, e mi chiedo se questa non sia la reazione all’attacco sempre più duro dei pro-life all’autodeterminazione della donna.

In effetti anche ieri hanno sfilato a Roma. Ma non crede che, con l’attuale maggioranza, questo sia il momento meno opportuno per rimettere mano alla legge 194?

È una preoccupazione che dura da decenni, non c’è dubbio, e che esiste anche in altri Paesi. Però secondo me è una preoccupazione rischiosa, perché non ci fa ragionare. Come medico ho il dovere di chiedere che vengano cambiare le norme che non funzionano dal punto di vista medico.

Qui però si rischia di aprire un varco a chi attacca l’autodeterminazione della donna, che non è un principio medico…

È probabile. Però nondimeno, se si evitano strumentalizzazioni, vale la pena provarci. Avendo lavorato in consultorio per tanti anni, posso assicurare alla presidente Meloni, che insiste per applicare bene la legge laddove prescrive che la donna venga aiutata a rimuovere le cause dell’aborto, che è ciò che facciamo da sempre.