LA Weekly: morte di un giornale alternativo
Editoria Lo storico settimanale della metropoli californiana ha chiuso i battenti
Editoria Lo storico settimanale della metropoli californiana ha chiuso i battenti
Si è trattato, secondo Mara Shalhoup, di una scena degna delle nozze rosse: un bagno di sangue che, come nel celebre episodio di Trono di Spade, è stato fulmineo, inatteso e micidiale.
L’ex direttrice del LA Weekly ha descritto così il pomeriggio di fine novembre quando ad uno ad uno ogni redattore dello storico giornale alternativo di Los Angeles è stato chiamato in redazione ed informato che non sarebbe stato necessario venire al lavoro l’indomani. “Ci aspettavamo dei tagli” ha aggiunto Shalhoup, “ma non questo.”
Le voci su di un ridimensionamento dell’organico erano cominciate a circolare un paio di settimane prima con l’annuncio della cessione della testata ad una cordata “anonima.” Ma la nuova proprietà – Semanal Media – ha optato invece per un’eviscerazione che di fatto ha segnato la fine di una quarantennale storia giornalistica.
Il Weekly è stato fondato nel 1978, diretto da Jay Levin e finanziato da un piccolo gruppo di sponsor fra cui Michael Douglas.
Il giornale – sempre gratuito e finanziato interamente da pubblicità ed inserzioni – adotta il modello editoriale alternative press di testate come il Detroit Free Press ed il Village Voice, testata, quella storica newyorchese, che per alcuni anni (2006-2012) appartiene alla stessa holding, New Times Media.
Da allora ha abbinato ogni giovedì la guida più esauriente agli eventi in città ad inchieste, editoriali, long-form e rubriche di giornalismo tagliente ed indipendente, diventando organo imprescindibile della scene artistica, musicale e culturale di Los Angeles, oltre che essenziale voce politicamente antagonista.
Celebre per l’annuale best of che ogni fine anno passava in rassegna il meglio di ristoranti, locali, cinema indipendente e teatro cittadino, il Weekly è stato vitale strumento di amalgamazione culturale in una megalopoli dispersiva e dominata dai media commerciali.
A Los Angeles la redazione – prima negli uffici di Hollywood, poi a Los Feliz e infine a Culver City – e la galassia di collaboratori freelance che ha aggregato negli anni, hanno rappresentato un canale progressista ed un essenziale strumento giornalistico per decifrare la città e le dinamiche culturali e di potere che la sottendono.
Il Weekly è stato pioniere nelle direzioni femminile con Laurie Ochoa e Jill Stewart fra le altre, ha ospitato importanti firme di cinema e politica come Harold Meyerson, Manhola Dargis, Ella Taylor e Marc Cooper, fungendo da vivaio per testate nazionali e negli anni d’oro ha superato il Voice come il settimanale alternativo più letto in America (165.000 copie).
Non solo nei contenuti insomma, ma per le annose traversie e vicissitudini di proprietà, crisi di bilancio, e un fermento editoriale occasionalmente espresso in contrasti intestini, è stata testata d’oltreoceano speculare per un giornale come il Manifesto.
Ora, due mesi dopo che anche il Village Voice ha cessato le pubblicazioni (diventando testata esclusivamente online), sembra essere però arrivato il colpo di grazia, lasciando in città il solito strascico di tristezza, e forse qualche rimpianto, che segue alla litania di necrologi di giornali.
L’amarezza in questo caso è stata aumentata dalla modalità del takeover. Inizialmente l’operazione è stata coperta da completa segretezza, solo un nome era affiorato come rappresentante della cordata acquirente: David Welch, conosciuto come avvocato di interessi legati all’emergente industria del cannabis.
Il mercato della marijuana, che come da referendum in California sarà interamente legalizzato a partire dal primo gennaio, promette enormi guadagni e si profila una forte crescita per un imprenditoria “alternativa” recentemente sempre più legata ad ambienti libertarian, cioè caratterizzati più da una fede liberista e di mercato che non dalle originali radici contro culturali del cannabis, e a volte con aperte simpatie per la destra. I timori peggiori sembrano avverarsi quando si apprende che fra gli investitori che hanno decapitato il Weekly ci sono avvocati, affaristi e agenti immobiliari di Orange County, la roccaforte repubblicana a sud di Los Angeles.
La nuova proprietà designa poi un nuovo direttore editoriale, Brian Calle, che ufficialmente professa “profondo rispetto” per la tradizione giornalistica e l’indipendenza della testata, salvo scoprire antecedenti poco rassicuranti.
In passato infatti Calle ha lavorato per il Claremont Institute, un think tank conservatore che dichiara di promuovere la “necessaria battaglia culturale per rompere il monopolio culturale del progressismo” in quanto tradimento degli ideali originali di fondatori della patria. Per farlo si propone di formare le “menti conservatrici più brillanti ed inserirle in posizioni che permettano di influire sulla cultura, compresi tribunali, governo, università e media.”
La rivelazione suscita forti polemiche e risentimento in circoli giornalistici e culturali.
Henry Rollins già decano punk, ex cantante dei Black Flag, che da anni scrive sulle pagine del Weekly annuncia un boicottaggio del nuovo giornale cui aderiscono nomi come Ava DuVernay e Mark Ruffalo. Un tale “dirottamento” di “brand” non si vedeva da quando Scientology aveva rilevato il marchio del cult awareness network per trarre in inganno i dissidenti che vi si rivolgevano per assistenza nell’abbandonare la setta.
Un arrembaggio, quello al Weekly, tanto più sinistro in era trumpista – in tempo cioè di attacchi coordinati al giornalismo, oggetto di bordate quotidiane dalla Casa Bianca – ed acquisizioni ostili, l’ultima quella proposta del venerabile Time finanziata dai famigerati fratelli Koch, “banchieri” trumpisti del movimento conservatore oltranzista.
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