La «voce» di Gianni Bosio
Il ritratto Proponeva la canzone popolare e il canto sociale come terreno di riflessione storica prima ancora che etnomusicologica, così da recuperare anche tutte le esperienze eretiche. A cento anni dalla nascita del ricercatore musicale, tra i primi ad utilizzare le fonti orali nella storiografia, il suo approccio alla conoscenza critica emerge come una alternativa al populismo
Il ritratto Proponeva la canzone popolare e il canto sociale come terreno di riflessione storica prima ancora che etnomusicologica, così da recuperare anche tutte le esperienze eretiche. A cento anni dalla nascita del ricercatore musicale, tra i primi ad utilizzare le fonti orali nella storiografia, il suo approccio alla conoscenza critica emerge come una alternativa al populismo
Quando ho cominciato a pensare a questo anniversario, mi sono venute in mente due canzoni di Ivan Della Mea, in cui lui si rivolge direttamente a Gianni Bosio. La prima è un classico: «Sent on po’ Gioan, te se ricordet/ del quarantott, bei temp de buriana…/ Vegniven giò da la Rocca de Berghem/ i tosan brascià su tutt insema/ tutt insema cantaven, cantaven “Bandiera Rossa”, Gioan, te se ricordet…». La seconda, meno nota ma altrettanto bella, fa parte dell’album Se qualcuno ti fa morto, che Ivan dedicò a Gianni Bosio dopo la sua morte. Racconta una giornata di ricerca, nel 1966, a Costabona, in provincia di Reggio Emilia, dove l’intero gruppo dell’Istituto de Martino svolse una campagna di ricerca sulla rappresentazione popolare del Maggio cantato. «A Costabona a gh’era’l Mag/ Gh’era anca ‘l sol ma per quej che canten, che canten Mag/ E Magg vor dì/ Viva la tera, viva la dona/ Viva la vita di chi l’è vivv».
LA DOMANDA È: che relazione c’è fra “Bandiera rossa” e il Maggio, una canzone comunista di lotta e una rappresentazione popolare cantata, in costume, su temi epico-drammatici? Gianni Bosio ci fa capire che la relazione esiste ed è profonda: sono due modi in cui il mondo popolare si rappresenta, in cui afferma la propria presenza nella storia con linguaggi propri, parlando per sé, di sé, a sé. La cosa importante non è tanto che cosa dicono, ma il fatto che il mondo popolare dica, che abbia voce, che abbia linguaggi propri.
Comincia qui lo scandalo di Gianni Bosio: pensare alla storia del mondo popolare a partire dalle fonti che il mondo popolare stesso esprime (le fonti orali, la musica di tradizione orale, ma anche tutta la gamma sterminata delle scritture popolari. Bosio raccoglie minuziosamente anche tutte le fonti scritte provenienti dal mondo popolare). Significa competere con una storiografia (e una visione politica) che tratta la storia delle classi non egemoni solo come storia delle loro rappresentanze politiche, e la storia delle rappresentanze politiche come storia dei gruppi dirigenti. Per forza che la proposta di Bosio è rimasta irricevibile per tutte le forze politiche istituzionalizzate della sinistra.
Perciò Bosio lavora sulle forme espressive specifiche di una cultura popolare che si esprimeva soprattutto con gli strumenti dell’oralità: è lui (come in altro modo Danilo Montaldo e Rocco Scotellaro) a inaugurare in Italia il lavoro con le fonti storiche orali. Ed è lui che, fondando insieme al gruppo di Cantacronache (Sergio Liberovici, Italo Calvino, Fausto Amodei, Michele Luciano Straniero) il Nuovo Canzoniere Italiano, propone la canzone popolare e il canto sociale come terreno di riflessione storica prima ancora che etnomusicologica. In questo modo recupera dalla storia del mondo popolare non solo i filoni maggioritari ma anche tutte le esperienze eretiche e alternative: gli anarchici, i lazzarettisti, le forme irrituali della religiosità popolare – appunto, i Maggi, i canti religiosi, insieme con le canzoni di lotta e le ballate epico-liriche. Al di là dei contenuti, infatti, il dato politicamente importante è riconoscere che il modo popolare ha una voce, anzi ne ha moltissime e che vanno ascoltate.
MA NON ASCOLTATE passivamente. In un saggio intitolato Elogio del magnetofono, Bosio aveva osservato che la possibilità di registrare le voci del mondo popolare permetteva di compiere sulla cultura dell’oralità lo stesso lavoro di analisi critica che era possibile con i testi scritti, e quindi riconoscerne a pieno la complessità e la dignità culturale – capire che quel canto color di terra a Costabona, e quel canto di “Bandiera rossa” in piazza significano «creare cultura», e cercare di capirla e razionalizzarla. La «presenza alternativa» del mondo popolare e proletario a cui si ispira la fondazione dell’Istituto Ernesto de Martino, infatti, si accompagna alla «conoscenza critica»: il rapporto di Bosio con le culture popolari concepite non come una nebulosa indifferenziata è l’esatto contrario di un populismo indistinto che tratta il mondo popolare da subalterno proprio perché finge di esserne l’eco.
«Critica» vuol dire in primo luogo distinguere: “Bandiera rossa” e il Maggio di Costabona vengono entrambe dal mondo popolare, ma non sono la stessa cosa, e quindi vanno ascoltate con strumenti diversi. Quindi «critica» vuol dire anche analisi, interpretazione, decostruzione e ricostruzione: in altre parole, vuol dire (anche qui il contrario del populismo) che non rinunciamo al nostro compito di intellettuali, ma lo svolgiamo in un altro modo.
In entrambe le canzoni da cui sono partito, Ivan Della Mea colloca Bosio in una posizione di ascolto: «Gioan» sta a sentire lui («Sent’un po’») e sta ad ascoltare il Maggio, registratore in spalla. Nel momento in cui ti rendi conto che quel canto è creazione di cultura, non sei più l’intellettuale che, depositario della cultura, la porge alle masse per sottrarle alla loro ignoranza. Da «intellettuale rovesciato», prima di parlare ascolti, prima di insegnare impari. Ivan Della Mea ribadisce che i maggiaioli di Costabona stanno creando cultura non solo per sé, ma «anca per numm», anche per noi che abbiamo la testa piena della cultura delle classi dominanti. L’immagine di Bosio che a fine giornata canta con la voce stracciata dal gran cantare è anche una metafora del fatto che, più che essere noi che «diamo voce» a chi non ha voce, riceviamo da loro una nostra voce diversa e più libera (se gli operai di Terni, i minatori del Kentucky, gli abitanti delle borgate romane non avessero avuto voce, io non avrei potuto scrivere una riga).
Il punto è che le culture popolari una voce ce l’hanno – ma nessuno la sta a sentire. Quindi quello che offriamo in cambio della voce che riceviamo è in primo luogo l’ascolto. Ma, appunto, un ascolto critico, che individua le strutture, i punti di forza, le contraddizioni, e le riporta indietro in forma consapevole, organizzata, riflessiva, aiutando i loro creatori a usarle come strumenti non solo di presenza ma di liberazione: «armare le masse della loro stessa forza», scriveva allora Gianni Bosio. Questo è il senso dell’altra provocazione di Bosio: la rottura delle barriere – politiche, prima ancora che disciplinari e accademiche – tra «uomo folklorico» e «uomo storico».
LO SCANDALO di mettere insieme “Bandiera rossa” e i Maggi sta, in ultima analisi, nel rompere con l’ideologia per cui chi canta “Bandiera Rossa” sta nella storia e chi canta i Maggi sta nel folklore. A parte che non è detto che non facciano entrambe le cose (gli operai che incontrai al pellegrinaggio della Santissima Trinità a Vallepietra avevano partecipato alla grande manifestazione nazionale del metalmeccanici due mesi prima – e “Bandiera Rossa” è comunque un canto popolare di tradizione orale con tutti i crismi folklorici), sono comunque – per parafrasare Ernesto de Martino – cittadini del nostro stesso Paese che stanno dentro la nostra stessa storia.
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