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La vita vissuta a Cuba, come un bolero

La vita vissuta a Cuba, come un bolero

Il libro «Bolero Avana», da add editore

Pubblicato più di un anno faEdizione del 10 giugno 2023

Come si può scrivere di Cuba se là si lavora in una importante Ong, si ha casa, marito e gatti e insomma si ha messo radici nell’isola? E si può scriverne senza una qualche forma di autocensura? Carla Vitantonio prova a percorrere questo tornante piuttosto impervio con il suo Bolero Avana (add editore, pagg. 384) e avverte: «Seguo una regola: scrivo solo ciò che ho visto e ciò che so». Ad aiutarla è il fatto di aver vissuto e lavorato in paesi sempre all’estremità di qualcosa, come la Corea del Nord e Myanmar. Anche in quei casi ne sono usciti dei memoir (Pyongyang Blues e Myanmar Swing, sempre per add editore) ma lei era già lontana, immersa in altri jet-lag. Qui la sfida si fa più difficile.

Carla Vitantonio è arrivata a Cuba nel 2018. Anche se nel mondo dei cooperanti l’isola caraibica è una sorta di ultima spiaggia, per lei era un po’ il sogno della sua vita. Ci si può chiedere perché Cuba sia il sogno di una quarantenne, con una formazione libertaria, allergica al potere, un pensiero femminista e queer. «A vent’anni Cuba mi sembrava qualcosa di alternativo, l’orgoglio di saper resistere – ci racconta – Poi a trent’anni sono arrivata con il disgelo di Obama e c’era un tale fermento che ho pensato: sarebbe un sogno stare in quest’onda. Ci sono atterrata davvero ai miei quaranta e ho trovato un altro paese. Forse come tutti i sogni non bisogna mai viverli, dovrebbero restare così. Alla fine racconto il mio passaggio all’adultità».
Dopo quattro anni in cui si è immersa davvero nell’isola, fino a stringersela addosso, Carla ha sentito il bisogno di scrivere. Lo ha fatto sotto forma di lungo monologo, complice la sua prima vita passata a teatro; un flusso scandito da «indizi» come ha intitolato i vari capitoli. Un racconto prima di tutto di sé, che sia in bicicletta per le strade della Cuba profonda, contadina e struggente, o a rincorrere i ricordi della sua famiglia molisana; nel sorriso del suo amore e contro il muro di gomma della burocrazia; a zonzo nei vicoli dell’Avana o di fronte al «grande blu» del mare.

Via via che mettiamo insieme tutti gli indizi, il sogno di Cuba è sempre sul punto di infrangersi in qualche attesa esasperante, nei negozi vuoti, nei palazzi che crollano dall’incuria, nell’occhio della Stasi, nei colleghi che d’improvviso lasciano il paese senza dirlo a nessuno allungando la lista di un esodo che impressiona. Eppure proprio vivendoci, racconta Carla, si può inciampare in sorprese «tra le pieghe non normate dalla fitta maglia dello Stato», qualcosa che forse sopravvive di quel sogno o forse resiste ad esso. Sono i saperi antichi delle comunità che si preparano agli uragani, sono i tanti sanitari che fanno miracoli anche quando mancano le medicine più basilari, sono le donne che si inventano i modi per trovare cibo in un paese che ha disimparato a coltivare e allevare e ha finito per importare pollo dagli Usa per decine di milioni di dollari al mese. Sono le ragazze del suo staff della Ong che si esercitano in una leadership femminista e sanno trovare le strategie per realizzare progetti impensabili, in un paese che sospetta di qualunque Ong.

La pagina bella è quando si fa un memoir intimo del paese e della sua gente, le lunghe nuotate, l’odore delle campagne e quel «mi piace questa cosa che accade qui, che la gente prepara rituali per ogni occasione». Ma è anche un libro disseminato di altri indizi, quelli che non si staccano dal sogno e vogliono rassicurare che esista ancora, nonostante sia morto troppo presto: e allora l’embargo, Miami, i dissidenti pochi e a libro-paga, le proteste orchestrate. Un catalogo di déjà-vu. Allora bisogna tornare alla domanda: come è possibile raccontare Cuba? A un certo punto, scrive l’autrice: «Sono un po’ come Reinaldo Arenas che, dopo aver scritto una pessima autobiografia, ha ammesso di aver firmato la confessione perché era un codardo». Ma Carla lo dice quando parla dei suoi capelli. Lui invece lo scriveva dopo aver vissuto l’inferno, descritto peraltro magistralmente.

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