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La triste parabola del «prof» di Bolzaneto

La triste parabola del «prof» di BolzanetoFabrizio Ferrazzi al momento dell'arresto, durante il G8 di Genova

La storia Laureato in filosofia e appassionato di letteratura polacca, cattolico e pacifista, Fabrizio Ferrazzi fu torturato nella caserma degli orrori. Dieci anni dopo, ha deciso di farla finita

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 20 luglio 2013

Sabato 21 luglio 2001 tornammo a casa col solito pullman, ancora sconvolti per quel che avevamo visto: le cariche, i lacrimogeni, la fuga guidata dall’alto – da Radio Popolare, dagli amici al telefonino, dai genovesi affacciati alle finestre – il terrore per le squadre di polizia e carabinieri, il militante della Fiom che si era preso cura di un ragazzino sotto choc per le manganellate assestategli solo perché indossava una maglia del Che, il suo pianto straziante. Il viaggio di ritorno fu colmo di rabbia, ma incredibilmente silenzioso, prevaleva lo sconcerto. Un boato ci fu quando la televisione mandò il presidente della Repubblica in compagnia di Berlusconi. A casa, poi, ancora televisione: non riuscivamo a prendere sonno e così seguimmo sul televideo l’irruzione alla Diaz. L’incubo pareva non finire. La domenica ci sentivamo sospesi, persi nel frastuono di villeggianti ansiosi per un minuto in più di sole. Nella fuga avevamo conosciuto un genovese che ricordava i fatti del 30 giugno 1960 ed era preoccupato per il figlio che dormiva alla Diaz: «Cosa gli succederà?» «Cosa gli sarà successo?» ci chiedevamo a colazione.
All’ora di pranzo trasmettevano scene di devastazione e scontri. Ci parve di riconoscere Fabrizio, cugino di mio padre, ma forse si trattava solo di una vaga somiglianza. E invece a sera arrivò la telefonata: Fabrizio Ferrazzi era stato arrestato venerdì verso mezzogiorno, in piazza Novi, ancor prima della morte di Carlo Giuliani. Era riuscito ad avvertire che stava a Bolzaneto. I suoi volevano sapere da mio padre – magistrato allora in servizio – che cosa gli sarebbe accaduto, quanto lo avrebbero trattenuto, quando sarebbe uscito.
Da pochi giorni Fabrizio aveva compiuto cinquantuno anni. Viveva a La Spezia, si era laureato in filosofia all’Università di Pisa, aveva insegnato alle scuole superiori, poi si era dedicato all’azienda agricola di famiglia a Supersano, in Puglia, cosa che gli permetteva di ritagliarsi tempo per la sua vera passione, la storia e la letteratura polacca. Dal suo primo soggiorno a Cracovia, all’inizio degli anni Ottanta, quel paese sfortunato, spesso cancellato dalle carte geografiche era divenuto la sua terra elettiva. Fu un amore a prima vista, del resto erano giorni di grande fermento quelli in cui Solidarnosc operava clandestinamente e cominciava a far breccia tra gli studenti, trovando poi sostegno nel Comitato di Difesa degli Operai (Kor, Komitet Obrony Robotników). Grazie al richiamo identitario della cultura cattolica, Solidarnosc raggiunse un fortissimo radicamento popolare e Fabrizio assistette ai primi volantinaggi, sentì parlare di scioperi nei cantieri, partecipò alle imponenti manifestazioni durante la visita di Wojtyla nel giugno del 1983. Le parole pronunciate in quell’occasione dal papa, proprio così, suonarono come un forte appello alla sua coscienza. In simbiosi con la sua gente, la fede di Fabrizio assunse sfumature politiche di opposizione al socialismo reale e a ogni autoritarismo, perciò i resoconti di K.S. Karol per lui erano diventati un appuntamento fisso. Ma prima ancora di quell’esperienza e dei tanti amici lasciati a Cracovia e Varsavia, la letteratura polacca diventò la sua vera patria: Adam Mickiewicz, Juliusz Slowacki, Zygmunt Krasinski, Czeslaw Milosz. I versi di Mickiewicz (1798-1855) lo conquistarono, al punto che arrivò a ripercorrerne le tappe fino a Vilnius, in Lituania, immedesimandosi con l’antico poeta quando raccontava del suo arresto del 1823 e, dopo mesi di prigione, del suo lungo infinito esilio.
Fabrizio uscì dal carcere di Alessandria lunedì. Sconvolto, sulle prime non volle parlare e solo nei giorni immediatamente successivi raccontò alla stampa e partecipò a un presidio a La Spezia. Era andata così: quel venerdì in piazza Novi voleva aiutare una signora, «chiaramente un’esaltata religiosa che camminava in mezzo al lancio di lacrimogeni della polizia e alle pietre degli anarchici, ripetendo “Dio non vuole questo”». Lui le andò incontro, nello zaino aveva un libro di grandi dimensioni, che avrebbe brandito per difendersi dalle forze dell’ordine, alzò le braccia e si prese una scarica di botte, lo braccarono e lo caricarono sul cellulare. Le immagini lo mostrano col sangue che gli cola sul viso, «affettuosamente abbracciato» da un paio di carabinieri, e lui che reagisce cantando la Marsigliese. «La stretta al collo di uno di loro m’ha fatto abbassare sul più bello la tonalità» osservava e spiegò che era stato un amico polacco, il giorno prima al telefono, a ricordargli della Marsigliese, canto proibito nella Polonia di Jaruzelski come nella Spagna di Franco. I giornali lo definirono «blac bloc», «straniero», «militante dei Cobas», il manifesto pubblicò la sua foto definendolo «manifestante francese».
Il cellulare dei carabinieri fece tappa alla caserma della polizia stradale presso la Fiera del Levante e qui rimase dalle due alle nove di sera, «in piedi, sotto il sole, il sangue rappreso sulla faccia, la voglia di svenire e la paura di farlo». Era in compagnia di un ragazzino straniero e di un romano; nel corso del pomeriggio si aggiunsero una ventina di fermati e, non appena provavano a dir qualcosa, ricevevano botte e insulti. Verso le nove di venerdì furono portati al lager di Bolzaneto e in un’intervista rilasciata a La Repubblica leggo: «Ci danno il benvenuto i signori in grigioverde col giubbotto nero dei Gom (Gruppo Operativo Mobile), solito trattamento: ginocchia a terra, calci e manganello. I colleghi della polizia ci mettono in fila di fronte al muro e guai a chi si gira, soprattutto se sentiamo qualcuno che si lamenta o piange. Il gioco era provocarci per vedere se si reagiva. Anche il medico vede queste scene. La sua visita, quelle che il ministro nomina come prova del nostro stato di salute, consiste in un’occhiata al volo e due pacche sulle spalle. Eppure io continuavo a sanguinare dalla testa e tremavo». Fabrizio aveva un taglio profondo che solo il giorno dopo gli cucirono con venti punti, senza togliergli i lacci dal polso. Fu un inferno: non poter andare in bagno per un giorno intero, subire e assistere a umiliazioni continue (soprattutto sulle donne), sentirsi dare dello «sporco comunista» (a lui), dover gridare «viva il duce» per non prendere botte, e ricevere «colpi da dietro, calci; niente da spezzare le ossa, ma faceva impressione perché quel ragazzo era ferito e quando ha posato la fronte sul muro gli è stato detto di non sporcare, gli hanno tirato i capelli e dato pugni e schiaffi». Comunicarono a Fabrizio che l’accusa a suo carico era d’aver tirato una molotov, al che reagì, chiese d’incontrare il suo accusatore e subì nuove angherie, tra cui una minaccia ripetuta: «La festa te la facciamo dopo!» Tutti dovevano sottostare ai giochi sadici di quei picchiatori, che facevano assumere posizioni vessatorie e, «come dei cosacchi quando danno la punizione», riempivano di calci e pugni chi doveva raggiungere l’ufficio matricola di fronte all’infermeria. In mezzo a quell’odore di sangue e orina, chiese di telefonare all’anziano padre, ma non voleva che fosse una concessione, bensì «il riconoscimento di un diritto». Gli rispose Alessandro Perugini – allora vice-capo della Digos di Genova – domandandogli se pensava di essere in America. Forse si riferiva all’America del Quinto Emendamento, pensò Fabrizio, che con coraggio ribatté: «Magari in America no, però forse neanche in Turchia». «Beh, diciamo che siamo a metà strada» fu la chiosa di Perugini. Fu anche per questo dialogo che i compagni di sventura presero a chiamarlo «prof», «professore», e cercavano conforto in lui, il più anziano.
Sabato pomeriggio Fabrizio fu trasferito nel carcere di Alessandria. Tutto questo, però, lo abbiamo letto sui giornali o sugli atti del tribunale, perché lui non entrava mai nell’argomento e, se sollecitato, cambiava discorso. Parlava per ore di Mickiewicz, compiendo digressioni continue, indugiando in citazioni in polacco e russo. Spiegava l’importanza del poema filosofico Konrad Wallenrod (1828) o di Dziady (1822-1832), opera teatrale in cui sono descritte le sofferenze terrene, il martirio della Polonia paragonata alla Passione di Cristo, e nell’ultima parte lo spirito di un giovane suicida, consumato dalla passione che lo ha portato alla morte. Fabrizio era malato: prima di Genova, nel 1998, si era operato all’intestino, ma i giorni di Bolzaneto e Alessandria lasciarono una traccia indelebile. Le operazioni si susseguirono una dietro l’altra e lui continuò a tradurre, a lottare, sebbene con fatica crescente. Denunciò i suoi aguzzini, andò alle prime udienze del processo, nel 2003 fu impegnato nel movimento contro la guerra in Afghanistan, contro il secondo governo Berlusconi, nel 2005 partecipò ai funerali di Wojtyla, di cui pure vedeva le contraddizioni. Scrisse saggi di argomento filosofico incentrati su Scoto Eriugena, Anselmo d’Aosta, Tommaso d’Aquino, ancora sul messianesimo polacco, ma le sue condizioni di salute peggioravano. Ricoveri, operazioni, Fabrizio non riusciva più a occuparsi dell’azienda agricola e nel dicembre 2011 ha deciso di farla finita, «consumato dalla passione» come il giovane protagonista dell’opera di Mickiewicz, in esilio nella sua casa che guarda il Golfo dei poeti. A metà strada tra l’America e la Turchia.

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