La sconfitta della coalizione a trazione Pd ha riportato nell’agenda il mancato rapporto tra la politica progressista e la società. Sul tema Fabrizio Barca ha insistito in due recenti interviste.

Un’intervista a La Stampa, l’altra al manifesto. «Se la sinistra non sa ascoltare il Paese», titola il primo articolo; «C’è stato un mancato riconoscimento degli interlocutori», sostiene il coordinatore del Forum Diseguaglianze e Diversità nel secondo. Non c’è dubbio che il Paese sia costellato di esperienze di produzione, gestione e distribuzione di beni e servizi economici che hanno conseguenze importanti.

Esperimenti che generano micro-modelli di sviluppo dove crescita economica, equità sociale e sostenibilità ambientale cercano nuovi punti di equilibrio. Si tratta, spessissimo, di esperienze a livello sub-locale, vuoi nelle aree interne, vuoi nelle periferie urbane, luoghi che non contano. Un fermento sociale ed economico che, effettivamente, rappresenta una delle pochissime cose meritevoli di attenzione degli ultimi trent’anni.

Troviamo qui aziende for profit con nuovi modelli di business più equilibrati tra capitale e lavoro, imprese recuperate, cooperative di comunità, modelli di distribuzione con algoritmi negoziati con i lavoratori (e che quindi non cadono nella combinazione mostruosa tra cottimo e tecnologie digitali, come la maggioranza delle piattaforme per rider), cliniche sociali, accoglienza diffusa dei migranti nei territori, imprese di economia sociale, piccoli Comuni che cercano di gestire in modo veramente pubblico le poche risorse rimaste, gestione virtuosa dei beni confiscati alle mafie, produzione e distribuzione alternativa nelle filiere agroalimentari, comunità energetiche. E molti altri, casi di azione sociale diretta (si veda L. Bosi e L. Zamponi, Resistere alla crisi. I percorsi dell’azione sociale diretta, Il Mulino, 2019).

Tutto vero, ma non è bastato. La responsabilità maggiore, questa è la tesi degli articoli citati, è della politica e, segnatamente, dei partiti di centro-sinistra che non sono stati in grado di intercettare queste esperienze, dando loro potere e voce pubblica. Chi un po’ conosca da vicino il “fermento sociale” in questione, non può che convenire con questo argomento generale.

Del resto, c’è in questa lettura un’omissione importante: proprio l’intrinseca gratificazione che queste esperienze trasmettono a chi le anima, sia come lavoratore che come attivista o volontario, tengono lontano la partecipazione attiva nella vita politica. Non si tratta solo o tanto del voto alle elezioni, da qualunque parte vada. Ma della volontà di mettersi in gioco direttamente nella vita politica, come offerta e capacità organizzativa. Vuoi scalando i partiti (per quanto) esistenti, vuoi creando nuove forme organizzate dell’agire politico.

Ci sono certo ottime ragioni per non farlo. I partiti più vicini a questi mondi si sono ridotti in grandissima parte a sistemi di gestione del potere, attenti solo a posti, risorse, scambi, controllo. Il tatticismo elettorale domina sulla scelta dello schema di gioco: meglio non rischiare nulla e scegliere l’opzione più sicura nelle alleanze. Meglio confermare la propria base elettorale, con accordi non compromettenti.

L’assenza di rischio politico e le tattiche di conservazione dello status quo riducono i principi e le istanze del “fermento sociale” a mera strategia comunicativa, a cui non fanno seguito (o non precedono) azioni e decisioni trasparenti. Gli standard sono quindi eccessivamente bassi: c’è molta più politica e visione di futuro nella gestione condivisa di una comunità energetica, o nel piano industriale scritto dal Collettivo di fabbrica della GKN, che negli stantii processi decisionali di un partito politico.

Ma proprio queste buone ragioni costituiscono una trappola: la politica è partigiana e le decisioni che contano non avvengono per magnanimità, lungimiranza o casualità. In Italia, come dappertutto, sono le persone nei ruoli che – quando possono – decidono.

Se anche si pensasse che sono altri poteri – nascosti e non elettivi – a decidere, è comunque con questi ruoli politici che tali poteri devono mediare, negoziare e cercare qualche forma del compromesso. È, in altri termini, proprio il buon funzionamento della micro-politica nel sociale che disincentiva la presa in carico in prima persona dell’azione nella politica istituzionale.

Certo, la responsabilità maggiore è dei partiti, non fosse altro per via dei rapporti di forza asimmetrici e della diversità dei ruoli ricoperti. Ma se le cose stanno anche così – e se non si può chiedere ai partiti ciò che non sono strutturalmente in grado fare, cioè auto-riformarsi – allora non resta che la strada del conflitto politico. Sostituirsi all’offerta politica esistente, senza aspettare la delusione dell’ennesimo tatticismo privo di orizzonte.

Twitter: @FilBarbera