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La tragedia dei rohingya trova ascolto a Montecitorio

La tragedia dei rohingya trova ascolto a Montecitorio – Afp

Myanmar «Prima che italiani, birmani o rohingya…noi siamo umani». Ha appena iniziato a parlare Maung Zarni che subito strappa l’applauso a una platea in gran parte di studenti di diritto che, ospiti del presidente della Camera Roberto Fico, sono venuti a Montecitorio per l’incontro voluto dalla Fondazione Basso e dal Tpp sulla tragedia dei Rohingya, la minoranza musulmana senza cittadinanza cacciata dal Myanmar in Bangladesh pogrom dopo pogrom

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 11 dicembre 2018

Il lavoro di raccolta di informazioni, testimonianze, prove che ha portato nel settembre del 2017 il Tribunale permanente dei popoli (Tpp) a emettere una sentenza di genocidio e crimini di Stato perpetrati a danno di Rohingya, Kachin e altre minoranze birmane, finirà nei faldoni della Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi).

UN’ORGANIZZAZIONE della società civile che per mesi ha raccolto le prove dei crimini birmani, intende adesso passare alla Cpi tutti i materiali che furono presentati alla sessione internazionale di Kuala Lumpur nell’autunno dell’anno scorso: materiali che potrebbero integrare il lavoro dei magistrati che, da qualche mese, stanno valutando la possibile incriminazione di chi organizzò e mise in opera una «deportazione» di massa in Bangladesh che, in soli due mesi nel 2017, ha fatto fuggire dal Myanmar oltre 700mila persone.

La decisione è stata resa nota ieri a Roma durante una Conferenza organizzata dal Tpp e dalla Fondazione Basso dedicata ai Rohingya nel 70mo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo. Una carta che il Myanmar, allora Birmania, fu tra i primi Stati membri dell’Onu a firmare.

«Prima che italiani, birmani o rohingya… noi siamo umani». Ha appena iniziato a parlare Maung Zarni che subito strappa l’applauso a una platea in gran parte di studenti di diritto che, ospiti del presidente della Camera Roberto Fico, sono venuti a Montecitorio per l’incontro voluto dalla Fondazione Basso e dal Tpp sulla tragedia dei Rohingya, la minoranza musulmana senza cittadinanza cacciata dal Myanmar in Bangladesh pogrom dopo pogrom.

MAUNG ZARNI È UN BIRMANO buddista – dunque due volte colpevole di aver preso le parti dei reietti – che al suo Paese non può più mettere piede. Fa parte della Free Rohingya Coalition, un’organizzazione che fa campagna per il popolo ormai senza patria. In Europa, con il suo compagno Nay San Lwin, sta facendo il giro delle capitali per convincere la Ue a prendere una posizione più dura verso il Myanmar: «per levare tutti i benefici commerciali» a un Paese che – spiega Zarni – «non può essere definito una democrazia in transizione visto che la Costituzione prevede come legale un golpe militare».

MA ZARNI E LWIN non hanno nessun appuntamento istituzionale. Il governo italiano, in linea con i precedenti, ha scelto il silenzio sul dossier rohingya. Un po’ come ha fatto per la giornata della Dichiarazione dei diritti dell’uomo che proprio ieri celebrava settant’anni. Bizzarro che a ricordarla sia solo la società civile e la sensibilità isolata del presidente della Camera. Bizzarro, forse, ma non certo inutile.

FRANCO IPPOLITO, che è presidente della Fondazione Basso e dunque anche del Tpp che da Lelio Basso fu fondato, sottolinea l’importanza di strumenti non istituzionali che alla fine riescono sempre a fare pressione sulle istituzioni.

Il Tpp infatti è solo un «tribunale d’opinione» e, aggiunge il giurista Nello Rossi «il suo lavoro è più importante per le audizioni – ossia per la raccolta delle testimonianze – che non per le sentenze».

È un tribunale che dunque continuerà a lavorare, conclude Ippolito, «proprio perché perda di senso un tribunale d’opinione». Perché, aggiunge Gianni Tognoni che del Tpp è segretario generale «le vittime siano dei soggetti» non delle semplici comparse.

NEL FARE IL PUNTO sullo stato dell’arte della tutela dei diritti umani, Giuseppe Palmisano e Luigi Ferrajoli, sottolineano il divario creatosi tra le promesse scaturite dopo la seconda Guerra mondiale e la realtà dei fatti. «Promesse – dice Ferrajoli – di una stagione costituente formidabile» ma che ha sempre bisogno di strumenti di denuncia e di dibattiti uno dei quali, ricorda Palmisano, dovrebbe ritornare sul problema complesso «dell’uso della forza».

La grande stanza dove aleggiano gli arazzi che richiamano la formidabile stagione costituente che partorì la Costituzione italiana è attraversata dal brivido che solo certe parole possono evocare: genocidio, deportazione, trasferimento forzato, stupro, omicidio di massa. Ci vuole che la giurista Flavia Lattanzi, una signora con i capelli bianchi e lo spirito di una trentenne, prenda la parola dal pubblico: «Se la Corte penale internazionale ha deciso, dopo molte resistenze, di avviare l’indagine, si deve alla caparbietà e al lavoro anche di qualche giovane giurista che è riuscito a spuntarla. Lo dico a voi – dice questa canuta giovinetta alla platea – perché ognuno di noi e di voi può fare, nel suo piccolo, qualcosa».

E lascia acceso un piccolo testimone luminoso con la certezza che qualcuno lo raccoglierà.

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