L’unica cosa che è cambiata nelle consultazioni sulle riforme costituzionali che oggi vedranno protagonista la presidente del Consiglio è l’ordine dei partiti di opposizione che le sfileranno davanti. E il fatto che ci sarà anche Giuseppe Conte, anzi aprirà proprio lui alle 12:30 la sfilata, guidando la delegazione dei 5 Stelle. Alla camera hanno fatto le cose in grande, attrezzando la biblioteca del presidente Fontana per fare spazio a mezzo governo (attorno a Meloni ci saranno i due vice premier, la ministra per le riforme, il ministro per i rapporti con il parlamento, i sottosegretari Mantovano e Fazzolari, il consigliere giuridico Marini) e preparando la sala della Regina per le dichiarazioni alla stampa delle delegazioni all’uscita. Com’è tradizione per le vere consultazioni, quelle che servono alla formazione del governo. Ma questa volta la presidente del Consiglio vuole dare lei le carte per la riscrittura della Costituzione. Tant’è che si fa precedere da questa dichiarazione, gridata nel comizio elettorale di Ancona ieri sera: «Voglio fare una riforma il più possibile condivisa, ma la faccio comunque perché tengo fede al mandato che ho ricevuto dagli elettori».

Se dunque è cambiato l’ordine delle convocazioni delle opposizioni, non sono migliorate le premesse a questi incontri. Le distanze tra le intenzioni di Meloni e quelle di chi le siederà davanti oggi non sono diminuite. Meloni resta attestata sull’elezione diretta e considera quella del presidente del Consiglio come un passo indietro, un compromesso e una sua concessione alle opposizioni rispetto alla preferita elezione diretta del presidente della Repubblica. Gli altri sono disponibili a parlare di rafforzamento dei poteri del primo ministro ma sono contrari all’elezione diretta. Tutti, tranne Renzi e (con meno convinzione) Calenda che nelle ultime ore accrescono le loro manifestazioni di disponibilità. Renzi addirittura dice di «fare il tifo per Meloni». Confidando, per acquisire un ruolo, che alla destra possa bastare per raccontare che le riforme sono «condivise». Ma così non è. Anche se circola qualche calcolo sul contributo numerico che i renzian-calendiani e altre truppe sparse potrebbero dare all’approvazione del «sindaco d’Italia» (sarebbe in effetti una formula istituzionale solo italiana) sono calcoli inutili, visto che i gruppi parlamentari da qui a due anni quando si voterebbero in teoria queste riforme non avranno certo la consistenza di quelli di oggi. A cominciare proprio dal gruppo di Azione-Italia viva.

Elly Schlein – foto LaPresse

Sulla sostanza degli accordi possibili, quindi, prevalgono le esigenze di tattica politica. Meloni vuole dimostrare di muoversi con decisione anche sul terreno delle riforme che è il più tradizionale parlar d’altro dei governi in difficoltà. Ragione per cui non rinuncia ai toni ultimativi stile «prendere o lasciare», quando se cercasse davvero un accordo dovrebbe fare il contrario. Anche Schlein che con queste premesse avrebbe potuto anche evitare di parlarne non può lasciare solo ai renziani il ruolo di chi prende sul serio le esigenze di rinnovamento delle istituzioni, né solo ai 5 Stelle la parte dei difensori della Costituzione. Nel Pd sono ben presenti sia quelli che calcano sulla prima preoccupazione che quelli che vedono solo la seconda. La segreteria di ieri e poi la riunione con i rappresentanti nelle commissioni parlamentari affari costituzionali ha prodotto una linea buona per coprire entrambe le esigenze: «Ci confronteremo e porteremo la nostra posizione, ma la convocazione non sia un modo per distrarre l’attenzione dai temi che interessano le persone: lavoro, sanità, Pnrr». La posizione del Pd sulle riforme è nota: no all’elezione diretta ma sì a una forma di «cancellierato» che preveda il potere di nomina e revoca dei ministri e la sfiducia costruttiva, unito a una «razionalizzazione» del bicameralismo. Se Meloni dovesse insistere con i suoi prendere o lasciare, dicono al Nazareno, andrà a schiantarsi sul referendum costituzionale come già Berlusconi e Renzi prima di lei. Le parole della premier da Ancona certamente non aiutano a impostare un atteggiamento dialogante. Se la frase «non penso a un uomo solo al comando» non tranquillizza per ovvie ragioni, l’altra è anche peggio: «Non accetto atteggiamenti aventiniani».

Alla fine, il grado di prevalenza delle diverse posizioni nel Pd si misurerà da quanto Schlein deciderà di far pesare le condizioni che il partito ha deciso di mettere al dialogo: che si rallenti la corsa dell’autonomia differenziata e si rinunci a cancellare il ballottaggio nei comuni. Se lo spettacolo delle consultazioni in diretta lo ha attrezzato Meloni per la sua convenienza tattica, la dichiarazione più attesa è quella della segretaria Pd.