La strategia della violenza nei nomi delle guerre
Avrei voluto essere in quella stanza, quando i quadri militari israeliani hanno deciso che sì, il nome è quello giusto: l’attacco in Cisgiordania dell’agosto 2024 si chiamerà “Operazione Campi Estivi”. I campi sono, naturalmente, i campi profughi (conseguenza dell’occupazione israeliana, naturalmente), e già questo porta con sé un grado di ironia amarissima, la demolizione di un assetto creato dal demolitore. In effetti, si tratta a questo punto di finire il lavoro. Ma certo non può sfuggire l’altro senso dei “campi estivi”, quelli dove bambini che giocano e trascorrono il momento più bello dell’anno. Ecco, è qui che la vena ironica di questo nome trasuda, francamente, perversione.
L’uso di dare un nome alle guerre o operazioni militari non è nuovo né certamente un’invenzione israeliana. Risale alla Germania della Prima Guerra Mondiale ed evolve da dispositivo militare con funzione di codice a elemento rilevante delle relazioni pubbliche delle nazioni coinvolte, man mano che i mezzi di comunicazione di massa a loro volta si sviluppano. È noto che Churchill (responsabile della scelta di “Overlord” per lo sbarco in Normandia al posto di altre opzioni come “sledgehammer”, martello o mazza) stilò delle regole per l’assegnazione dei nomi delle operazioni: se si prevedeva che le perdite sarebbero state in numero molto elevato, il nome non doveva essere buffo né in alcun modo risibile.
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Colonialismo e barbarieGli Stati Uniti, sempre avanguardisti della spettacolarizzazione di tutto, hanno sfornato nomi degni di Hollywood per le loro guerre. Ricordiamo tutti le esotiche Desert Shield, Desert Storm, e anche Desert Sabre (“sciabola del deserto”, forse, chissà, anche a richiamare la spada laser, lightsabre in inglese, di Luke Skywalker).
Il punto di svolta per gli Usa fu dopo il Vietnam, prima guerra intensamente trasmessa in tv e che aveva visto operazioni singole con nomi spesso apertamente violenti o denigratori, come Good Friend, Turkey Shoot, o Rabbit Hunt, preceduti dalle esplicite operazioni della guerra in Corea del 1951, come Rat Killer e Ripper (squartatore), per esempio. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti si rese conto che questi nomi non costituivano buone mosse PR per il brand Usa e nel 1972 emanò una serie di linee guida atte a “rispecchiare gli ideali tradizionali americani” e a non offendere la sensibilità di altri gruppi o religioni, né di nazioni alleate o facenti parte del cosiddetto “mondo libero”.
Così, dopo più di un decennio di nomi random generati dai computer, la svolta comunicativa avvenne con Panama, dove nel 1989 andò in scena Operation Just Cause per rimuovere Noriega. In anni più recenti, dopo le suggestioni del deserto, gli USA sono passati a insistere sull’evocazione altrettanto evanescente e disorientante della libertà: Operation Iraqi Freedom, Operation Enduring Freedom, Operation Freedom’s Sentinel. I nomi delle guerre e delle diverse fasi delle operazioni sono infiniti, non solo quelli statunitensi ma di quasi tutti i soggetti – statuali e a volte non statuali – coinvolti in guerre negli ultimi decenni. Sarebbe una lista lunghissima, e certamente degna di studi attenti e forse anche urgenti, vista la nuova accelerazione dei mezzi di comunicazione di massa, e in parte anche delle guerre, almeno nella percezione che ne abbiamo in Occidente.
Tornando all’ironia, si potrebbe certamente considerare anche l’utilizzo della parola “libertà” da parte degli Usa, per esempio per andare a combattere una guerra su suolo sovrano straniero e senza essere stati attaccati, una enorme ironia, anche senza entrare nella questione degli Usa come “terra di libertà” e quindi del significato stesso che si intende dare alla libertà, se veramente compatibile con la società capitalistica. Eppure, l’ironia dei “campi estivi” israeliani sembra fare, se possibile, un salto in avanti, un colpo disumano in più nel massacro già in atto. L’ironia servirebbe come mezzo di distacco, dovrebbe aiutarci a vedere le cose da una distanza che le rende meno tragiche, anche se magari in fondo un po’ amare. La linea, però, tra ironia e crudeltà a volte è sottilissima, e lascia, in questo caso, intravedere una strategia di comunicazione che va oltre la spettacolarizzazione della violenza; è (in mondo visione) anche la violenza delle parole.
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