Non è un’opinione, né qualcosa da sottovalutare o strumentalizzare: la sovranità alimentare è un diritto dei popoli, definito e promosso da convenzioni e organizzazioni internazionali.

Nell’aprile 2008, l’International Assessment of Agricultural Science and Technology for Development (IAASTD), panel intergovernativo con il patrocinio delle Nazioni Unite e della Banca Mondiale, la definisce come “il diritto dei popoli e degli Stati sovrani a determinare democraticamente le proprie politiche agricole e alimentari”. Ma il concetto di sovranità alimentare è lanciato per la prima volta dal movimento internazionale Via Campesina, un’organizzazione di agricoltori fondata nel 1993 a Mons, in Belgio, formata da 182 organizzazioni di 81 paesi: “un movimento internazionale che coordina le organizzazioni contadine dei piccoli e medi produttori, dei lavoratori agricoli, delle donne rurali e delle comunità indigene dell’Asia, dell’Africa, dell’America e dell’Europa”.

UNA REALTÀ CHE SI PONE in antitesi al modello neo-liberale di globalizzazione delle imprese: infatti, il concetto di sovranità alimentare che propone Via Campesina prevede un legame indissolubile tra cibo e politiche del cibo, produzione agricola, ecosistemi, territori e comunità che quei territori li abitano, la loro cultura e identità. La sovranità alimentare è strettamente legata alla biodiversità e valorizza il lavoro legato alla produzione alimentare nel mondo, spesso svilito e nascosto.

UN CONCETTO QUANTO mai attuale oggi che ci riguarda tutti: non a caso da molti anni Slow Food si occupa di sovranità alimentare, supportando e promuovendo in tutto il mondo i sistemi locali del cibo, fortemente legati ai territori, basati sulle connessioni, sulle comunità, in grado di combattere lo spreco alimentare, di valorizzare la produzione di piccola e media scala e di proteggere la biodiversità! Sistemi di produzione a bassi input esterni e ad alto tasso di competenze, creatività e buone pratiche.

NEL 2014 UN RAPPORTO della Fao calcolava che nove su dieci dei 570 milioni di aziende agricole nel mondo erano aziende a conduzione familiare e producevano approssimativamente l’80% del cibo mondiale. Eppure questo tipo di agricoltura viene tutt’oggi narrata come “alternativa”. C’è un lavoro importante da svolgere sulle narrazioni e sulle parole: quando abbiamo iniziato a riflettere sull’edizione 2022 di Terra Madre Salone del Gusto – l’evento che ogni due anni chiama a raccolta il mondo della produzione alimentare internazionale di piccola e media scala – abbiamo deciso di darci il tema della “rigenerazione”: subito dopo abbiamo pensato che, prima di ogni altra cosa, fosse urgente una rigenerazione del pensiero e quindi del linguaggio: affinché anch’esso sia al servizio della verità e non degli interessi specifici di alcuni. Perché è proprio questo il punto: il bene comune o il privilegio di pochi.

SOVRANITÀ ALIMENTARE non è sinonimo di autarchia: è il diritto dei popoli a determinare le proprie politiche alimentari senza costrizioni esterne legate a interessi privati e specifici. È un concetto più ampio e complesso che sancisce l’importanza della connessione tra territori, comunità e cibo e pone la questione dell’utilizzo delle risorse in un’ottica di bene comune in antitesi a un consumo scellerato per il profitto di alcuni.

Non a caso, nell’ambito del piano quadro europeo del “Green Deal”, la strategia “Farm to Fork”, pubblicato dalla Commissione Europea e approvato dal Parlamento nell’ottobre 2022, che si prefigge di approdare in dieci anni a un sistema alimentare equo, sano, sostenibile, ha trovato da subito una decisa opposizione da parte di lobby delle aziende agricole industriali, da un certo numero di deputati conservatori e dalle multinazionali dell’agroindustria, adducendo la motivazione di un calo nella produzione di cibo. Ma sappiamo bene che un terzo del cibo prodotto viene sprecato. E con quel terzo sfameremmo 4 volte il quasi miliardo di persone che non ha regolare accesso al cibo.

ALLORA STABILIAMO DUE punti fermi: il primo è che non dobbiamo produrre di più ma meglio, costruire un sistema equo di produzione e distribuzione, ma anche economico e sociale. Il secondo: si muore di fame per povertà non per scarsità. Si muore di fame perché si è poveri. La fame è il diritto negato alla sopravvivenza e diretta conseguenza del diritto negato a determinare le proprie politiche alimentari al fine di garantire accessibilità, salubrità, adeguatezza di un cibo dal punto di vista ambientale, nutrizionale e culturale.

L’ATTUALE MODELLO produttivo agroindustriale ha disvelato i suoi limiti e è il primo a dover esser messo in discussione se vogliamo immaginare e disegnare una prospettiva che consegni al futuro prosperità ed equità. La tutela del suolo, della biodiversità e delle risorse è una questione storica, identitaria, legata alle economie, ai territori e alle comunità, è questione di diritti umani e riguarda, in definitiva, il diritto delle comunità stesse ad esistere.

*Presidente di Slow Food Italia