Le Nazioni unite lanciano l’allarme: in Afghanistan, sempre più esponenti della società civile vengono uccisi e il negoziato di pace inaugurato il 12 settembre non ha condotto alla riduzione della violenza.

Tutt’altro. Sono i risultati principali di un rapporto speciale di 33 pagine redatto dai ricercatori dell’Onu e reso pubblico ieri: Killing of Human Rights Defenders, Journalists and Media Workers in Afghanistan, 2018-2021. Il rapporto copre il periodo dall’1 gennaio 2018 al 31 gennaio 2021 e rivela costanti e novità nelle minacce e nei rischi che corrono gli esponenti della società civile.

Difensori dei diritti umani, giornalisti e operatori dei media, giudici, rappresentanti del clero, procuratori, lavoratori della sanità, analisti politici, funzionari pubblici: l’elenco delle persone uccise o minacciate è lungo. Non risparmia nessuno. In questi tre anni, sono stati uccisi 33 giornalisti e operatori dei media, di cui due donne, a cui vanno aggiunti 32 difensori dei diritti umani (due donne).

Per quanto drammatici, i numeri non spiegano tutto. Cambiano i pericoli, cambiano modalità e obiettivi degli omicidi. Se nel 2018 le responsabilità maggiori sono da attribuire alla branca locale dello Stato islamico, la cosiddetta Provincia del Khorasan, che colpiva per ottenere il maggior numero di vittime con attentati complessi e non individuali, nel 2019 le vittime diminuiscono, ma comincia ad affermarsi la tattica dell’omicidio mirato singolo, che raggiunge il picco nei mesi a noi più vicini, da fine 2020.

Più in particolare, dall’inizio del negoziato tra i Talebani e il “fronte repubblicano” che include il governo di Kabul, l’opposizione al presidente Ashraf Ghani, qualche sparuto rappresentante della società civile.

Figlio dell’accordo bilaterale del febbraio 2020 tra i Talebani e Washington, il cosiddetto negoziato «intra-afghano» è iniziato il 12 settembre scorso e ha coinciso con un aumento della violenza contro la società civile. T

ra il 12 settembre 2020 e il 21 gennaio 2021 sono stati deliberatamente uccisi cinque difensori dei diritti umani (di cui una donna) e sei giornalisti o operatori dei media. Degli 11 omicidi mirati registrati negli ultimi mesi, solo uno è stato rivendicato, ancora una volta dallo Stato islamico: l’uccisione della giornalista Malalai Maiwand e del suo autista, a Jalalabad.

La strategia è deliberata, l’obiettivo chiaro, viene spiegato nel rapporto speciale: «Silenziare persone specifiche uccidendole, e allo stesso tempo inviare un messaggio che spaventi la più ampia comunità». In parte, l’obiettivo è stato raggiunto. Tra i giornalisti e le giornaliste, c’è chi ha abbandonato il lavoro, chi ha deciso di emigrare, chi è costretto all’autocensura.

Reazioni simili si riscontrano tra i difensori dei diritti umani. Una progressiva ritrazione nella sfera privata, proprio nel periodo in cui più sarebbe necessaria la partecipazione pubblica per condizionare forma ed esiti del negoziato tra i Talebani e i rappresentanti del “fronte repubblicano”, due attori con scarsa legittimità agli occhi della popolazione.

Rimane poi la grande incognita: chi ci sia dietro questa serie di omicidi mirati. La risposta più ovvia, ma più superficiale, punta solo ai Talebani, ma sono tanti gli attori che vogliono zittire la società civile.