Aiuti insufficienti, aiuti fantasma, aiuti bloccati sulle linee del fronte. Il sisma che il 6 febbraio, all’alba, ha seminato devastazione e morte nel nord-ovest della Siria e nel sud-ovest della Turchia sta facendo letteralmente implodere quel che restava ancora intatto della vita di milioni di siriani.

La potenza distruttiva del terremoto si è incuneata in una realtà fatta di mancata ricostruzione, guerra permanente, epidemie di colera, suddivisione del territorio in autorità rivali, povertà ormai strutturale e una diaspora che non ha mai ritrovato la via di casa.

«LAVORO da 16 anni nella cooperazione, ho affrontato emergenze in 14 paesi e posso dire, senza alcun dubbio, che il livello di distruzione a cui sto assistendo tra Siria e Turchia non ha precedenti. La dimensione del disastro è qualcosa di inimmaginabile».

La voce di Salaheddin Aboulgasem, membro della ong internazionale Islamic Relief, ci arriva con difficoltà, la linea cade spesso. Racconta di un numero di dispersi nemmeno quantificato e dei corpi che ha visto tirare fuori dalle macerie («Poco fa tre cadaveri in meno di cinque minuti»).

E racconta di quanto accadrà quando le operazioni di ricerca cesseranno e si dovrà affrontare una crisi nella crisi: «Gli aiuti arrivano in Siria ma sono pochi. Questo disastro avrà ramificazioni sul lungo termine. Si abbatte su generazioni di siriani che conoscono solo guerra da 12 anni. In tanti non sono corsi fuori di casa dopo la prima scossa perché pensavano fosse un altro bombardamento. Sono morti così».

Gli effetti psicologici, ci dice Aboulgasem, non vanno sottovalutati, si inseriscono in una quotidianità di sfollamento e deprivazione di lungo periodo.

COME NON VA sottovalutato il rischio delle morti indirette: «I sopravvissuti potrebbero morire di freddo, fame, malattie, infezioni. Qui ogni infrastruttura è danneggiata, collassata. Molti sfollati dormono nelle moschee, nei centri comunitari. Altri sono andati a oltre venti chilometri dalle loro città per trovare ospitalità da famiglie che hanno aperto le porte. Ma si tratta di milioni di persone. E, a differenza della Turchia dove c’è un minimo coordinamento dei soccorsi, in Siria questo manca».

A unire con un filo Turchia e Siria è il tentativo di monopolizzare gli aiuti: se nella prima è l’Afad a concentrare su di sé la distribuzione, impedendo – anche tramite confische – alle realtà di base nelle aree curde del sud del paese di portare solidarietà concreta, in Siria nelle zone controllate dal governo a operare è la Mezzaluna rossa siriana (Sarc).

Da sabato, denuncia la Mezzaluna rossa curda (Heyva Sor), sta impedendo il transito di aiuti verso la regione di Shahba (dove da anni vivono in condizioni più che precarie centinaia di migliaia di sfollati dal cantone curdo-siriano di Afrin, occupato dalla Turchia) e verso il quartiere di Sheikh Maqsoud ad Aleppo: «Siamo fermi a un checkpoint da sabato – ci dice al telefono Fee Bauman di Heva Sor – Il governo siriano ci ha detto che dobbiamo consegnare il convoglio alla Sarc, che penserà a distribuire gli aiuti. Non lo accettiamo, sia perché temiamo che il materiale non raggiungerà Shahba e Sheikh Maqsoud, sia perché con noi abbiamo anche staff medico e paramedico, che potrebbe aiutare la Sarc a far fronte alle necessità delle persone».

NEI TRE CAMION bloccati, ci spiega Un Ponte Per, partner di Heyva Sor, ci sono tende, materassi, coperte, materiali per il riscaldamento e medicine. «Si tratta del secondo invio – continua Bauman – Il primo era andato a buon fine. Potremmo mandarne molti altri se il governo ci desse il via libera».

Ferme al checkpoint anche due ambulanze: «Non è accettabile che chiedano a Heyva Sor di cederle – ci spiega Martina Pignatti, direttrice della cooperazione di Un Ponte Per – La Sarc ha molti più mezzi. E sta rifiutando anche lo staff medico, mobilitato partendo dall’idea di un sostegno solidale. Stiamo mobilitando parlamentari italiani, la Farnesina e qualsiasi canale possa sbloccare la situazione».

«In Siria milioni di persone sono rimaste senza casa – continua Pignatti – La tragedia ha proporzioni epiche. E non sappiamo come la comunità internazionale si muoverà per la ricostruzione: la cooperazione può ricostruire scuole, ospedali, ma non case private. Alleggerire le sanzioni può essere parte della soluzione, ma per noi ong il problema sono le istituzioni finanziarie che bloccano i fondi diretti ad attività umanitarie e dunque di per sé non soggette a sanzioni».

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Oltre 36mila morti. In Turchia 134 arresti

Sale inesorabile il bilancio delle vittime del sisma che il 6 febbraio ha colpito Turchia e Siria: ieri si contavano 31.643 morti nella prima, 4.614 nella seconda, un totale di 36.257. Le operazioni di ricerca proseguono, a oltre 180 ore dal sisma incredibilmente qualcuno viene trovato ancora vivo.

Ma a pesare, dopo le parole dell’Onu di sabato, sono quelle di ieri della Confindustria turca: in un rapporto preliminare sugli effetti del sisma, si stimano «72.663 morti e 193.399 feriti». Stimate anche le perdite in termini economici: 84,1 miliardi di dollari tra case perse e pil evaporato. A creare imbarazzo ieri era anche un altro rapporto, vecchio di tre anni ma profetico.

Secondo le esercitazioni condotte nell’ottobre 2019 in Turchia dall’Afad, l’agenzia per le emergenze, partendo dall’eventualità di un sisma di magnitudo 7,5 esattamente nelle stesse zone colpite una settimana fa, buona parte delle conseguenze erano state previste. Nonostante ciò, nessuna misura è stata assunta.

Ora lo Stato prova a correre ai ripari a suon di arresti e denunce: ieri il ministro della Giustizia Bekir Bozdag ha parlato di 134 mandati d’arresto, a pochi giorni dalla creazione di una task force giudiziaria sul sisma. In manette (o in attesa di finirci) sono i costruttori degli edifici crollati, molti dei quali nuovissimi, accusati di omicidio per negligenza.

In manette però finisce anche chi porta aiuti: domenica un convoglio di aiuti del partito di sinistra pro-curdo Hdp è stato confiscato dalla polizia ad Adana e le tre persone a bordo arrestate perché «prive del permesso del governatore».