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La sfida di Hollywood, «oscurare» Trump

La sfida di Hollywood, «oscurare» TrumpBarry Jenkins abbraccia Joy McMillons – foto La Presse

Oscar Sei premi al musical di Chazelle, tra i doc vince «OJ:Made in America». Scambio di buste e colpo di scena finale, la statuetta per il miglior film da «La La Land» va a «Moonlight». La cerimonia, condotta con sapienza da Jimmy Kimmel, ha evitato di mettere al centro il presidente

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 28 febbraio 2017

Improvvisa confusione sul palco, sguardi straniti, ringraziamenti interrotti a metà, repentino cambio di mano della statuetta – «non è uno scherzo!»-, Damien Chazelle che abbraccia Barry Jenkins, Warren Beatty che sorride imbarazzato, Faye Dunaway, confusissima, che cerca di svignarsela…Mentre a casa, nei vari Oscar party, la gente si stava già rimettendo il cappotto per andare a dormire dopo quasi quattro ore di diretta tv, il colpo di scena con cui si è concluso l’ottantanovesimo Academy Award è stato così sorprendente che il genio della suspense dell’ultimo minuto, M. Night Shyamalan, dice via Twitter di averlo scritto lui (li abbiamo proprio messi nel sacco #jimmykimmel!).

Altri hanno evocato lo scarto tra voto popolare e collegio elettorale che ha consegnato la Casa bianca a Donald Trump. Entro poche ore, Pricewaterhouse Coopers, l’accounting firm responsabile della gestione dei premi, aveva rilasciato un desolato comunicato di scuse, promettendo: «Un’inchiesta». Ma la gaffe storica per cui, davanti alle bocche letteralmente spalancate dei presenti in sala, causa uno scambio di buste, La La Land è stato per sette minuti il vincitore dell’Oscar di miglior film, per poi essere soppiantato da Moonlight, era già stata rimediata, in diretta, sul posto. In gran parte grazie alla classe e alla presenza di spirito dei vincitori e dei vinti (è stato il produttore di La La Land, Jordan Horowitz, a chiamare sul palco il gruppo di Moonlight mostrando alle telecamere il cartoncino che diceva «Best film: Moonlight»), di Beatty (che si è prestato di buon gioco a far da capro espiatorio) e del cool presentatore della serata, Jimmy Kimmel.

«Questo non mi sembrerebbe possibile nemmeno in un sogno. Ma al diavolo i sogni: è vero!», ha detto nel trambusto generale Barry Jenkins, il cui film ha vinto anche il premio di miglior sceneggiatura non originale e quello di miglior attore non protagonista, per Mahershala Ali. Dopo aver gentilmente sgombrato il palcoscenico per fargli posto, il team di La La Land se ne è andato a casa con sei Oscar (su quattordici nomination) – miglior regia per Damien Chazelle, miglior attrice protagonista Emma Stone, miglior fotografia, miglior canzone originale, miglior colonna sonora e miglior scenografia. A Casey Affleck la statuetta di miglior protagonista (peccato per Denzel Washington, che aveva le lacrime agli occhi, sia quando ha perso contro Affleck, sia quando ha visto vincere la sua co star in Barriere, Viola Davis) e a Kenneth Lonergan quella di miglior sceneggiatura originale. Il film è Manchester by the Sea, terzo «favorito» dell’anno. Tra i documentari, O.J: Made in America ha battuto Fuocoammare, di Rosi e I Am Not Your Negro di Raoul Peck. Nominati in più categorie, Arrival e Hacksaw Ridge hanno avuto premi tecnici – miglior sonoro, e miglior montaggio e mix sonoro.

Qualcuno dovrà poi spiegare come la foto della produttrice australiana Jan Chapman, che è viva e vegeta, abbia sostituito (nel segmento in memoriam) quella della costumista Janet Patterson, mancata l’ottobre scorso. Ma equivoci a parte – e comunque sono anche un po’ il bello della diretta – la cerimonia, prodotta da Michael de Luca, è stata una delle migliori degli ultimi anni. Set più moderni ed eleganti, tono più asciutto, meno liste di nomi che non dicono niente a nessuno nei ringraziamenti e sotteso, nell’abituale atmosfera di complicità e autocongratulazione in cui sguazza il rito annuale che celebra le punte dell’industria, anche un certo senso di urgenza e di disciplina.

Trasmesso in mondovisione in centinaia di paesi (nelle parole di Kimmel, «che adesso ci odiano tutti»), l’Oscar 2017 non poteva non tenere conto di un occupante della Casa bianca che ha attaccato Hollywood, i suoi valori e il suo immaginario, come il riflesso di un’élite sul viale del tramonto. «Dosare» Trump nell’interminabile cerimonia era una sfida. La soluzione light, poco sentenziosa, adottata da Kimmell, dall’Academy e dai premiati, è stata vincente. Prediche e pistolotti ridotti al minimo, o lasciati a uscite spontanee come quella di Gael Garcia Bernal che, presentando il vincitore di miglior film animato, Zootropia, è passato, in un volo pindarico, dagli animali del film, a definirsi: «un lavoratore migrante e un essere umano, contro tutti i muri che ci separano».

Efficace anche l’assenza di Asghar Farhadi, vincitore del miglior film straniero che, disertata la cerimonia in segno di protesta contro il travel band, ha invece mandato una lettera. Ma, eccettuati un paio di colpi ben messi a segno da Kimmel (che ha ringraziato il presidente perché: «Vi ricordate quando l’anno scorso si diceva che Hollywood è razzista?»), il nome di Trump è stato sostanzialmente assente dalla serata. Cosa che avrà sicuramente urtato il fragile ego di #45. L’idea era di risponder(gli) con il cinema.

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