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La sconfitta della non-violenza incompiuta

La sconfitta della non-violenza incompiutaPalestinesi cercano superstiti tra le macerie di un palazzo distrutto a Khan Younis, nella Striscia di Gaza – foto Ap

Israele/Palestina L'unica conta dei morti possibile è la somma per denunciare quante vite spezzate produce il mostro della guerra. I 3018 i bambini morti nei primi giorni di guerra dall'attacco del 7 ottobre, sono di Israele, Gaza, Cisgiordania. E ogni ora crescono

Pubblicato circa un anno faEdizione del 2 novembre 2023

C’è stato un tempo in cui la nonviolenza abitava in Palestina. Dal 1983 il Palestinian Centre for the Study of Nonviolence (PCSN) ha agito nella tradizione della lotta di liberazione gandhiana e sulla scorta degli studi del politologo Gene Sharp, individuando 120 tecniche nonviolente di resistenza all’oppressione israeliana. I coloni sradicavano ulivi centenari, e gruppi misti di palestinesi e israeliani nonviolenti di notte ne ripiantavano il doppio. In questo modo migliaia di acri furono salvati dall’occupazione. La nonviolenza aveva finalmente trovato una via nuova per radicarsi nel mondo arabo, proseguendo la straordinaria esperienza di Abdul Ghaffar Khan, il Gandhi musulmano, capo indiscusso dei pashtun che nel 1929 fondò un esercito nonviolento di centomila Servi di Dio contro il colonialismo britannico. I suoi testi furono tradotti in arabo e diffusi a Gaza dove molti musulmani apprezzavano il fatto che la nonviolenza fosse parte integrante dell’Islam.

Nel 1987 le autorità israeliane accusarono Mubarak Awad, il leader del Centro palestinese per lo studio della nonviolenza, di violare le leggi del paese incitando alla rivolta e organizzando la disobbedienza civile; gli fu intimato di lasciare il paese e venne espulso. Oggi vive negli Stati Uniti e si è rivolto ai leader di Hamas e al governo di Tel Aviv chiedendo loro di «accettare un cessate il fuoco immediato, compresa la cessazione degli attacchi missilistici contro Israele e degli attacchi militari contro Gaza». I semi di nonviolenza che erano stati piantati in Palestina quarant’anni fa, sembrano non essere più in grado di germogliare.

Il pessimismo è condiviso dalla palestinese Nivine Sandouka, direttrice esecutiva della Ong Our Rights di Gerusalemme: «56 anni di occupazione e 15 anni di assedio a Gaza, hanno fatto crescere enormemente la radicalizzazione, e tolto spazio all’umanizzazione: la maggioranza dei giovani guarda a chi dice di difenderli con le armi. Ma l’unica nostra possibilità – prosegue Sandouka-– è dimostrare che solo il dialogo e la pace difenderanno davvero i diritti della Palestina».

Eran Nissan, attivista israeliano per la pace che vive a Jaffa, leader dell’organizzazione progressista Mehazkim, dice che la maggioranza dei suoi concittadini sono consapevoli che la soluzione non potrà essere militare ma politica: «Dopo il 7 ottobre, in Israele i partiti del controllo e dell’apartheid hanno fallito la loro narrazione, ora c’è la possibilità per il partito dell’uguaglianza, che è cresciuto enormemente con grandi manifestazioni maggioritarie, di offrire una via d’uscita, la coesistenza, per una terra che deve essere condivisa tra i due popoli».

La via d’uscita è nelle mani di chi romperà la spirale di odio, rifiutando la logica perversa della guerra. Solo i civili israeliani e palestinesi che sceglieranno la via della nonviolenza, dell’agire comune per la pace, potranno ridare speranza al futuro della regione.

L’organizzazione mista israelo-palestinese The Parents Circle – Families Forum (PCFF), riunisce più di 600 famiglie in lutto che hanno auto vittime nel conflitto; ha pronunciato parole inequivocabili: «I nostri cuori sono spezzati. È un tempo di grande dolore. Il costo della violenza non si conta con i numeri, si conta in sogni frantumati. È il momento per tutte le parti coinvolte di riflettere sull’insensatezza di questo conflitto e riconoscere l’umanità condivisa che ci lega tutti».

Siamo arrivati all’oscenità macabra della solidarietà misurata in numero di morti, come se un cadavere contasse meno di dieci cadaveri. Come se 1400 vittime identificate avessero più dignità di 8000 vittime anonime.

L’unica conta dei morti possibile è la somma per denunciare quante vite spezzate produce il mostro della guerra. I 3018 i bambini morti nei primi giorni di guerra dall’attacco del 7 ottobre, sono di Israele, Gaza, Cisgiordania. Ogni ora crescono. Quei bambini non hanno bandiere, solo un sudario bianco. La guerra è questo: che sia guerra santa per la jihad, o guerra per l’esistenza milchamà, guerra di difesa o guerra di attacco, la catena va spezzata. Non è la lotta del bene contro il male. È odio contro odio. Solo la pace è il bene, per tutti, e la guerra è il male assoluto. Benedetto quel bambino che risponderà all’odio con umanità, che non ucciderà, che ci permetterà di ricominciare la conta dei vivi.

* Presidente del Movimento Nonviolento e Esecutivo Rete italiana Pace e Disarmo

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