Venerdì sera le notizie si inseguivano confuse. Un attentato a Tel Aviv, una sparatoria, poi un’auto lanciata sulla folla. Quattro feriti, sette, un morto, un italiano, Alessandro Parini. Ieri i dubbi sulla terribile vicenda non si erano dissipati, neppure per la polizia israeliana: attentato, dunque atto volontario, o drammatico incidente.

Resta una certezza: la questione israelo-palestinese non è relegata a quel pezzo di terra, ha conseguenze nella regione e nel mondo.

Non è la prima volta che un cittadino italiano le subisce. Nel marzo 2002 il fotoreporter Raffaele Ciriello fu abbattuto da una raffica di mitra dell’esercito israeliano durante l’assedio di Ramallah, in piena Seconda Intifada. Nell’agosto 2006 Angelo Frammartino, volontario, morì accoltellato da un palestinese nella Città Vecchia di Gerusalemme.

E NELL’APRILE 2011 l’attivista Vittorio Arrigoni fu rapito e ucciso da una banda di islamisti nella Gaza diventata sua seconda casa. Non solo italiani, una su tutti la statunitense Rachel Corrie schiacciata da un bulldozer israeliano a Rafah, venti anni fa.

La questione palestinese è globale. Lo è per l’effetto destabilizzante che continua ad avere in Medio Oriente ma soprattutto per le contraddizioni che squarcia in un Occidente che non sa chiamarla con il suo nome: un colonialismo d’insediamento che da 75 anni impedisce l’autodeterminazione di un popolo in diaspora continua.

Gli effetti, rivoli di violenze e ingiustizie, colpiscono in crescendo dentro i suoi confini (solo nel 2023, 94 i palestinesi uccisi da esercito israeliano o coloni, 17 gli israeliani) e oltre. E spingono ad analizzare le ragioni dietro atti che da anni ormai definiscono il perimetro della reazione palestinese a un orizzonte che non c’è.

Attacchi individuali, spesso commessi da giovani e persone estranee a partiti o movimenti strutturati, che assumono su di sé la dolorosa incapacità di dare forma a una resistenza politica organica. Poco conta la rivendicazione che sempre segue, il cappello che ci mettono le sigle più note, sia Hamas o la Jihad Islami.

Dalla fine della Seconda Intifada, il popolo palestinese è caduto in un buco nero. L’assenza di una leadership politica, l’ingombro di un guscio vuoto istituzionale (l’Autorità nazionale palestinese), la crescita degli islamisti, la morte cerebrale dell’Olp, l’indifferenza dei paesi arabi hanno aperto un divario sempre più incolmabile tra i vertici e la base.

LE CONSEGUENZE le vediamo: oltre agli atti individuali, a emergere in questi mesi è una nuova forma di lotta armata in Cisgiordania che ha vita breve come quella dei suoi combattenti, seguiti e «neutralizzati» uno a uno dalle incursioni sempre più violente dell’esercito.

Non è un caso che siano le iniziative popolari, apartitiche ma profondamente politiche, le sole in grado di generare un reale coinvolgimento di massa in ogni enclave della Palestina storica. Come la Grande Marcia del Ritorno, lanciata a Gaza nel marzo 2018, o la mobilitazione contro gli sgomberi di decine di famiglie palestinesi dalle loro case nel quartiere di Sheikh Jarrah, nella primavera del 2021.

Cos’è cambiato nella percezione internazionale della questione palestinese o nella reazione israeliana? Nulla. Due Intifada popolari, con la loro portata di disobbedienza civile e partecipazione totale, di classe e di genere, non sono riuscite nemmeno a intaccare il sistema di segregazione israeliano.

Non c’è riuscita l’Olp di Arafat, calpestando i sogni di libertà palestinesi pur di ottenere un pezzo di terra da chiamare Stato. Non ci riesce, ovviamente, l’Anp di Abu Mazen che in cambio di una bandiera e di una distribuzione elitaria di ricchezze ha abdicato a qualsiasi forma di movimento di liberazione.

Cosa può mai nascere da folli atti di violenza di singoli, mossi non dalla speranza di libertà ma dalla disperazione per la scomparsa non solo di un futuro, ma anche della capacità di immaginarlo?

Perché questi fallimenti hanno un responsabile: la complicità della comunità internazionale verso un colonialismo d’insediamento che nei decenni si è radicato fino a tramutarsi in ciò che organizzazioni internazionali, palestinesi e israeliane non temono di chiamare apartheid.

ETNOCRAZIA, il termine che usano in tanti e che appare il più consono di fronte sia alla radicalizzazione nazionalistico-religiosa assunta dagli ultimi governi israeliani sia alle proteste di questi mesi. Un’apparente contraddizione, viene da pensare vedendo un’ampia fetta della popolazione israeliana, di diversa appartenenza sociale e politica, ribellarsi alla riforma della giustizia teorizzata dal premier Netanyahu e dall’estrema destra.

Non lo è. Quella mobilitazione, storica, è una mobilitazione conservativa, volta cioè al mantenimento dello status quo e che finge di non vedere il vulnus che da 75 anni impedisce di definire Israele una democrazia (e di cui il sistema giudiziario è uno dei fautori): l’esistenza di sei milioni e mezzo di palestinesi, di qua e di là dal Muro, sottoposti a identica autorità nello stesso territorio ma privi dei diritti di sei milioni e mezzo di israeliani ebrei.

Lo dice il modo in cui la mobilitazione si è per ora spenta, sopravvivendo in numeri ristretti e discontinui: per fargli digerire il rinvio della riforma, Netanyahu ha promesso al ministro razzista Ben Gvir una milizia anti-palestinese, fuori da ogni diritto. Le piazze si sono svuotate, nessuno ha fiatato.