Economia

La scatola opaca del Pnrr

La scatola opaca del Pnrr«Stivali Italia» (1986) di Cinzia Ruggeri, artista invitata alla Quadriennale di Roma foto di Rebecca Fanuele. Archivio Cinzia Ruggeri, Milano; Galleria Federico Vavassori, Milano; Campoli Presti, Parigi-Londra

Pubblica amministrazione Sul Piano di Ripresa e Resilienza l’Italia è in ritardo e non c’è trasparenza. L’analisi di OpenPolis. Intervista a Vincenzo Smaldore

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 7 giugno 2022

L’assenteismo dei parlamentari, gli sprechi delle ricostruzioni post-terremoto, le spese pazze dell’emergenza pandemica: tutti scandali diventati di dominio pubblico grazie alla Fondazione OpenPolis. Non si tratta di un team di giornalisti di assalto, ma di un gruppo di tecnici e analisti che rendono scovano i dati della pubblica amministrazione e li espongono al pubblico scrutinio. L’ultima scatola nera aperta riguarda il Pnrr, il maxi-piano di investimenti – 235 miliardi di qui al 2026 – che dovrebbe cambiare il volto dell’Italia. Secondo Vincenzo Smaldore, responsabile dei rapporti e delle analisi che realizza OpenPolis sulla base dei dati aperti, al governo la trasparenza non è di casa.
Per questo avete appena inaugurato la nuova piattaforma «openPnrr»?
Prima di tutto abbiamo ricostruito la struttura del piano. Anche il governo aveva fatto un portale, ma non ci sono dati né strumenti di monitoraggio e partecipazione, nemmeno laddove il Pnrr prevede la co-progettazione, si limita alla comunicazione. In secondo luogo, monitoriamo le scadenze trimestrali fissate da Bruxelles. E anche quelle che si è dato lo stesso governo: per evitare che qualcuno ne chiedesse conto, il governo le aveva persino tolte dal web. Così, attraverso algoritmi e analisi, monitoriamo i dati elaborati da amministrazioni centrali e regioni. Infine, quantifichiamo le complessità delle riforme, perché non tutte hanno lo stesso «peso»: nel Pnrr ci sono cose come la riforma della giustizia o del fisco ma anche quella dell’ordinamento delle guide turistiche. Questo ci consente di prevedere la distanza dall’obiettivo. E ora chiunque può iscriversi alla piattaforma e monitorare lo stato di avanzamento del piano su singoli temi e per specifici territori. E ricevere attraverso le nostre newsletter il monitoraggio puntuale del piano.
Finora cosa emerge?
Entro giugno andava realizzato il 50% delle riforme previste dal Pnrr, ma siamo fermi al 42%. Era previsto il 25% degli investimenti, e il governo è al 20%. Bisogna considerare che per attivare alcuni investimenti è necessario prima creare la cornice normativa attraverso una riforma.
In quali settori siamo più indietro?
Su infrastrutture e trasporti le cose procedono bene. Sulla transizione ecologica invece siamo in ritardo. Il Pnrr prevede il completamento entro giugno del 91% delle riforme nel settore, e oggi siamo al 29%. Mancano i piani nazionali per l’economia circolare e per i rifiuti. Ma non deve passare l’idea che il Pnrr sia solo una lista della spesa. Non conta solo quante riforme si fanno, ma anche la loro qualità. Basti pensare all’efficientamento energetico, che ha portato al bonus del 110% per le ristrutturazioni. Il risultato è il sequestro di 4 miliardi di euro a causa degli illeciti da parte della Guardia di finanza.
Bisognerà anche controllare che i progetti siano effettivamente realizzati.
Il governo al momento non ha disposto alcun monitoraggio pubblico dell’avanzamento dei progetti. Eppure non sarebbe difficile. Una piattaforma di monitoraggio già c’è: è quella sui fondi strutturali europei e si chiama OpenCoesione. Bastava adoperare lo stesso sistema. Ma manca la scelta politica.
E quindi la valuazione del Pnrr come si farà?
Il piano prevede solo un confronto tra gli indicatori del 2021 e quelli del 2026. Secondo il piano, gli investimenti straordinari del Pnrr genereranno la crescita che sosterrà le riforme anche dopo il 2026. Ma è una scommessa tutta da verificare. Gli indicatori dicono che questa ripresa non è così solida, anche a causa della guerra. In molti settori, come quello edilizio, ci si sta rendendo conto che la crescita fondata sui bonus è effimera e non strutturale. Anche gli indicatori sull’occupazione non disegnano una società più coesa e ricca. Nel 2023, inoltre, finirà la legislatura e potrebbero cambiare molte cose. L’Europa potrebbe non mantenere lo stesso atteggiamento benevolo tenuto finora.
L’Unione finora è stata dalla nostra parte?
Nella conferenza stampa di Natale, Draghi aveva dichiarato di aver raggiunto tutti gli obiettivi fissati. In realtà, il nostro monitoraggio mostra che ne mancavano una ventina. Su questi però il premier aveva incassato un accordo politico con la maggioranza e l’Europa si era accontentata. In realtà, alcuni degli impegni fissati per la fine del 2021 sono stati realizzati solo a marzo del 2022. E tra le scadenze che il governo si è dato in modo autonomo ce sono ben 16 non rispettate. Non è detto che da Bruxelles ci sarà sempre questa tolleranza.
Perché è così difficile «aprire» i dati della pubblica amministrazione?
In Italia chi governa è convinto che per procedere in maniera spedita si debba fare a meno della trasparenza. Fino all’istituzione di regimi speciali come lo stato di emergenza durante la pandemia. Questa cultura contrasta con gli standard in vigore a livello internazionale, per cui la trasparenza è necessaria per l’efficienza dell’amministrazione. Poi c’è la questione di cosa si possa fare con i dati e chi abbia il diritto di usarli. La politica di governi e grandi imprese sui dati è di tipo “estrattivo”, volto al controllo e all’indirizzo di cittadini e consumatori. Controllo e indirizzo danno facoltà di esclusione o soppressione: un sito non indicizzato da Google è come se non esistesse. Noi crediamo che i dati siano invece un digital commons, cioè un bene comune digitale. Serve un intervento regolatore. In Europa si discute di un «data act», che prevede nuove normative sui dati a livello nazionale. Ma da noi persino molti dati raccolti da aziende titolari di concessioni pubbliche non vengono rilasciati.
In Italia si lamenta l’eccesso di controlli, come fa chi chiede l’eliminazione del codice degli appalti, ma anche la loro assenza. È un paradosso?
No, è una sorta di pendolo. A livello europeo sono state introdotte procedure che garantiscono la libera concorrenza e la protezione dalle infiltrazioni del crimine organizzato, sebbene permangano altri problemi, come quelli delle «porte girevoli» tra il settore pubblico e quello privato. Chi gestisce il potere però ha la necessità di riscontri immediati e di procedure rapide, e così cerca scorciatoie. Questo porta alle accelerazioni antiburocratiche. Regolarmente poi arrivano gli scandali, la pubblica indignazione e si torna indietro a rafforzare i controlli. Lo si vede su ogni grande partita italiana. Di nuovo, il caso dell’ecobonus è eloquente. Nella sua relazione annuale la Guardia di Finanza menziona i quattro miliardi di illeciti sequestrati negli investimenti per il bonus al 100% e due giorni dopo Draghi dà la colpa al governo passato e annuncia la modifica della norma. Però c’è anche chi si è opposto a questa «altalena»: il magistrato Raffaele Cantone si è dimesso dall’Agenzia nazionale anti-corruzione.
OpenPolis è diventata famosa quando ha reso pubbliche le assenze dei parlamentari. Avete dato una mano all’anti-politica?
Non credo. Abbiamo l’obiettivo di dare al cittadino la capacità di informarsi e distinguere e al decisore la possibilità di rendicontare. Questo risponde a nostro modo di vedere alla crisi della rappresentanza e dei corpi intermedi. Su alcune cose abbiamo sbloccato qualche meccanismo, ad esempio contro il trasformismo. Ma in Italia da quindici o vent’anni c’è una saldatura tra chi va non vuole un sistema democratico forte, maturo ed evoluto – e penso ad alcuni settori della finanza e dell’economia – e i movimenti anti-sistema. A volte sono attacchi combinati da entrambe le parti. Pensiamo alla follia della riduzione dei parlamentari, in omaggio alla doppia retorica anti-fannulloni e anti-casta. In realtà è un attacco alla rappresentanza. Se l’obiettivo del M5S erano i privilegiati, bisognava eliminare i privilegi, non ridurre i privilegiati. All’epoca si parlò molto degli stipendi dei politici e della volontà di contenere la spesa a loro favore. E così è passata in sordina la revisione delle indennità degli eletti locali, in alcuni casi quadruplicate. Alla fine, i soldi risparmiati riducendo il numero dei parlamentari sono un decimo della spesa in più per gli aumenti dell’indennità.

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