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La riforma del carcere nel nome di Margara

La riforma del carcere nel nome di Margara

Fuoriluogo La rubrica settimanale a cura di Fuoriluogo

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 13 febbraio 2019

Sul finire della sua vita intensa e appassionata, Alessandro Margara – che venerdì e sabato scorso è stato ricordato in un affollatissimo convegno promosso da Franco Corleone, suo successore alle funzioni di Garante dei detenuti della Regione Toscana – usava parlare del «carcere dopo Cristo», dopo il suo congedo, quando la speranza sembrava aver abbandonato, se non i sentimenti di coloro che lo abitano, quantomeno l’indirizzo politico-amministrativo.

Si potrebbe a lungo discutere se mai c’è stato un carcere «giusto», non discriminatorio nella selezione dei suoi ospiti, universalmente aperto alla prospettiva del reinserimento sociale dei condannati, così come l’avrebbe voluto Margara e come dice l’articolo 27 della Costituzione.

Certo è che il carcere di cui scriveva Margara non è dissimile da quello di oggi: 60mila detenuti, un terzo di stranieri per reati minori, metà direttamente o indirettamente riferibili alla legislazione sulla droga, il 60% dei condannati con una pena da scontare che potrebbe consentire l’accesso alle alternative, ma che viene costretto in carcere fino all’ultimo dei suoi giorni di pena.

Non potendosi pronunciare, nelle procedure giudiziarie, parole apertamente incostituzionali, tipo quelle proferite dal ministro dell’interno pro tempore in occasione della traduzione in Italia di un condannato a lungo latitante («deve marcire in galera»), oggi come allora il «carcere dopo Cristo» si affida a retoriche genericamente legalitarie, ma a prassi concretamente discriminatorie, come gli imprenditori politici della paura e una società incattivita vogliono che sia.

Questo abuso discriminatorio della legalità passa – non da oggi – dall’uso retorico di una formula, la «certezza della pena», che contiene in sé una doppia confusione: tra certezza della pena e certezza del diritto e tra certezza della pena e certezza della pena detentiva.

L’aspirazione alla certezza del diritto è indubbiamente un valore imprescindibile della sua funzione sociale: ne va della sua prevedibilità, necessaria a orientare comportamenti conformi così come a giustificare la sanzione di comportamenti difformi. Ma la legittima aspirazione alla certezza del diritto non è sovrapponibile alla richiesta certezza della pena.

La pena, infatti, è solo l’ultima delle possibili conseguenze dell’applicazione del diritto in materia penale, al netto della irrilevanza penale del fatto, della messa alla prova dell’imputato, della prescrizione del reato, dell’assoluzione dell’imputato, della prescrizione della pena, tutte soluzioni che corrispondono al valore e alla funzione della certezza del diritto, ma non a quella della certezza della pena.

La seconda confusione è quella tra certezza della pena e certezza della pena detentiva, contro la pluriformità delle modalità esecutive della pena e il principio del carcere come «extrema ratio».

Nell’atto di indirizzo per il 2019 del ministro della Giustizia Bonafede la certezza della pena viene definita come la «effettiva corrispondenza tra la pena oggetto di condanna definitiva e il percorso dell’esecuzione penale».

Conseguentemente, nel decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario ogni riferimento alle alternative alla detenzione è stato sciaguratamente cancellato.

Corollario di questa concezione della pena carcerocentrica è l’eterno ritorno dell’identico: un bel piano di edilizia penitenziaria, che – se mai si dovesse realizzare – non risolverà l’inevitabile sovraffollamento, ma lo alimenterà, mettendo a disposizione un maggior numero di carceri da riempire.

Oggi, con la mobilitazione della società civile, l’impegno istituzionale degli enti territoriali e la fedeltà alla Costituzione degli operatori del diritto si può e si deve evitare una nuova catastrofe umanitaria nelle carceri italiane.

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