Scade domani il contestato bando del ministero dell’università per finanziare ricerche congiunte tra Italia e Israele in settori a potenziale uso militare, mentre si moltiplicano le iniziative per chiedere alle università italiane lo stop alla collaborazione.
L’appello firmato da docenti e ricercatori universitari per fermare la cooperazione ha raggiunto le 2.500 adesioni, oltre al sostegno del Senato accademico dell’università di Torino e della scuola Normale di Pisa.

Ma secondo gli estensori dell’appello il cosiddetto «ritiro» dell’esercito israeliano dal sud di Gazah non è un motivo per fermare la mobilitazione. Anzi, i fatti di questi giorni ne hanno persino rafforzato le ragioni mostrando quanto le università israeliane siano in prima linea nel conflitto di Gaza. Nei giorni scorsi la ministra della ricerca e dell’università Anna Maria Bernini aveva provato a smorzare le polemiche con parole apparentemente benintenzionate: «Le collaborazioni delle università, anche con regimi dittatoriali, quali Cina, Iran, Corea del Nord etc. sono canali di dialogo», aveva detto. «La ricerca scientifica non ha nulla a che vedere con le prese di posizione tra due parti di un conflitto». È una visione edulcorata della comunità scientifica, che non vive – per fortuna – al riparo dai conflitti che agitano la società che la circonda. Con il pieno sostegno di tutti i governi occidentali, le sanzioni contro le università russe furono adottate da enti di ricerca nazionale e internazionali come il Cnr, il Cern o l’agenzia spaziale europea. L’associazione europea delle università, a cui partecipano anche quelle italiane, ha sospeso tutti i quattordici atenei russi che ne facevano parte.

In più le università israeliane, almeno nelle posizioni ufficiali dei loro vertici, sono schieratissime con il governo Nethanyahu. Tra i professori, i ricercatori e gli studenti il dibattito è vivo ma ogni dissenso comporta un prezzo elevato. La professoressa israelo-palestinese Nadera Shalhoub-Kevorkian è stata sospesa dall’insegnamento all’università ebraica di Gerusalemme per aver criticato le operazioni militari a Gaza, generando proteste sia nella comunità internazionale che nelle associazioni israeliane per i diritti civili. Anche l’uso dell’intelligenza artificiale da parte dell’esercito nel sistema Lavender, rivelato da un’inchiesta delle testate +972 e Local Call pubblicata dal manifesto, coinvolge in prima persona le università. Come dimostra l’inchiesta, Lavender fu presentato all’università di Tel Aviv nella «settimana dell’intelligenza artificiale», una manifestazione organizzata dall’ateneo nel 2023. A illustrarla fu proprio il misterioso «colonnello Yoav», comandante del centro segreto di Scienza dei dati e AI dell’Unità 8200 dell’esercito israeliano. Difficile considerare un ponte per il dialogo un’università come quella di Ariel, sorta in una colonia illegale in Cisgiordania e a cui l’accesso è negato ai palestinesi. La stessa Unione Europea la esclude dai finanziamenti per le ricerche congiunte senza che nessuno accusi Bruxelles di antisemitismo.

Se, come sostiene la ministra Bernini, l’etimologia di «universitas» discende da un’ispirazione cosmopolita che risale al medioevo e va difesa, è altrettanto vero che l’attività di ricerca scientifica non è affatto neutra e risponde sempre a interessi sociali ed economici: anche – forse soprattutto – quando questi non sono espliciti. Ciò non fa di ogni scienziato e scienziata uno strumento del potere politico e militare. Ma impone loro di valutare le ricadute dei propri studi e i valori che essi trasmettono, affinché non entrino in contraddizione con il principio di universalità su cui si fondano la loro libertà e autonomia.