Denso, ambizioso, plurale e antiretorico: questo è l’ intento dell’agile e consistente libro Israele-Palestina, oltre i nazionalismi, a cura di Bruno Montesano, edito nella «Collana di pensiero radicale» diretta da Goffredo Fofi per e/o (pp. 103, euro 10). Ambizioso e plurale si accompagnano: dieci autori infatti con dieci contributi diversi analizzano il conflitto che oppone Israele al popolo palestinese, scritti, tutti, tra ottobre del 2023 e febbraio del 2024 «con il comune obiettivo di superare le diverse forme di disumanizzazione e violenza che accompagnano il dibattito pubblico sul tema», spesso ci riesce, non sempre.

Il volume è anticipato dal saggio di Montesano «Oltre i nazionalismi, dal fiume al mare» che li tesse insieme e ne annota convergenze e discrepanze, un testo che non sorvola i molti nodi della questione e ne traccia un elenco ragionato: a partire proprio dall’idea guida del libro che si propone di «provare a capire quali forme di coesistenza siano possibili al di là della forma Stato-nazione»: «per i palestinesi non è ancora pensabile: senza Stato, per ora, non si dà quella parziale e asimmetrica forma di protezione collettiva per una popolazione. Ma Stato, Stato-nazione e istituzioni non necessariamente devono coincidere».

QUESTO SEMBRA IL NUCLEO dell’analisi, per proseguire con l’attenzione posta all’antisemitismo di sinistra, che esiste ed è un problema, e che nel discorso pubblico ignora però quello delle destre di governo «ancora affascinate dal mito del complotto giudaico e dalla sua incarnazione nella figura di George Soros» sottolineando d’altronde come «alcune frange dei movimenti contro l’occupazione hanno scelto di ignorare i lutti israeliani e di considerare l’antisemitismo un falso problema» e denunciando anche come un «uso distorto dell’accusa di antisemitismo» rivolta a parte della sinistra «permette di legittimare come non antisemita la destra postfascista».

«Esposti alla violenza di altri Stati – scrive Montesano – in un mondo di Stati-nazione, le comunità ebraiche e palestinesi, per proteggersi hanno cercato di costituirsi come Stato-nazione in un processo storico che (…) si servì del disfacimento dell’ordine coloniale mutuandone diversi aspetti». Israele quindi è considerato da alcuni studiosi uno Stato di colonialismo di insediamento che lo renderebbe più simile agli Stati Uniti e all’Australia rispetto alla colonizzazione europea dell’Africa, dell’Asia o del Sud America: un colonialismo privo quindi di una ‘madre patria’. D’altro canto, prosegue Montesano, «va detto che non alle sole élite e forze politiche israeliane si può dare la responsabilità della condizione palestinese, strumentalizzata per ragioni di politica interna o regionale dai Paesi limitrofi (Montesano si sottrae all’uso dell’aggettivo ‘arabi’) senza fare nulla per i rifugiati presenti nei propri campi profughi». E ancora: analizza la questione del fallimento dell’opzione dei due Stati e definisce i limiti dell’ipotesi dello Stato unico e di uno Stato federale o una confederazione: «Il presupposto – riporta verso la conclusione Montesano – è che né i palestinesi, né gli ebrei possano, né debbano, andare altrove».

DIFFICILE DARE CONTO di una pluralità di interventi tanto densi: Hala Alyan, scrittrice e psicologa, nel primo dei contributi – apparso sul New York Times il 25 ottobre scorso, uno dei pochi che, nel raccontare il mainstream dominante patisce la data di pubblicazione, oggi le cose appaiono molto diverse – acconta però anche, ne «Il doppio standard sulla Palestina», che «si presume che i palestinesi siano violenti – e meritevoli di violenza – fino a prova contraria (…). Si tratta, ovviamente di una strategia straordinariamente efficace. Un massacro non è un massacro se coloro che vengono massacrati sono colpevoli», e prosegue, «Non esito un secondo a condannare l’uccisione di qualsiasi bambino, qualsiasi massacro di civili, questo ovviamente include la vita degli ebrei».

Arielle Angel – redattrice del Jewish Current – in un contributo affranto riporta che «ora non abbiamo una lotta condivisa in grado di rispondere in modo credibile a questi massacri di israeliani e palestinesi. Con tutto il lavoro che molti ebrei e palestinesi hanno fatto per avvicinarsi gli uni agli altri nel corso degli anni, credo che in fondo sia questo fallimento che ora ci sta separando. In questo momento non esiste formazione politica che io conosca in grado di sostenere la soggettività politica sia degli ebrei che dei palestinesi senza semplicemente tentare di assimilare uno all’altro».

Luigi Manconi rivendica invece il diritto alla diserzione senza che questo implichi essere indifferenti quanto sottrarsi al principio di autorevolezza che deriva della conta dei morti dell’una o dell’altra parte – «calcolo selettivo che non aiuta a porre rimedio alla catastrofe in corso» – e che contesta l’uso dell’avversativa «ma»: «quello di Hamas è stato un atto di barbarie ma… e qui si elencano le colpe di Israele che riequilibrerebbero le colpe dei terroristi». Eppure, prosegue, «il tentativo faticoso e doloroso di scegliere di stare dalla parte delle vittime, risulta, più che una manifestazione di insicurezza o di ignavia, un imperativo morale ma anche politico».

Asef Bayat risponde all’intervento di Jurgen Habermas che nella dichiarazione firmata con altri intellettuali tedeschi – «Principles of solidarity. A statement» – sostiene che l’appoggio alla Stato d’Israele è una parte fondamentale della cultura tedesca «per la quale le vite delle persone ebree e il diritto a esistere di Israele sono elementi centrali che meritano una protezione speciale»: «È come se lei avesse il timore – scrive Bayat in una sorta di lettera a Habermas – che parlare della sofferenza dei palestinesi possa sminuire il suo impegno morale nei confronti delle vite degli ebrei».

ANNA MOMIGLIANO (in un bell’articolo del 23 ottobre apparso su il mulino online) decostruisce nodi politici e narrative condivise in «Israele, il Sud Africa, L’Algeria e noi. Il senso della sinistra per la decolonizzazione». Maria Grazia Meriggi, collaboratrice di queste pagine, nell’analizzare l’immigrazione ebraica in Palestina tra la fine del XIX secolo e fino agli anni Trenta del Novecento scrive che «un’analisi sociale di lungo periodo debba interpretare come fenomeni innanzi tutto migratori e non coloniali questi spostamenti di popolazione che, come del resto è ben noto, si sono prevalentemente rivolte agli Usa, in parte meno rilevante all’America latina e all’Europa occidentale», e prosegue, «i flussi migratori a cui ho accennato si svolgevano in un contesto coloniale ma credo che la distinzione tra coloni che esportano gli interessi della propria madrepatria e migranti con alle spalle storie di persecuzioni vada tenuta sempre presente». Widad Tamimi racconta di Hayim Katsman che ha perso la vita all’età di trentadue anni il 7 ottobre nel Kibbutz Holit, meccanico e studioso. Scrive Tamimi: «Ciò che impedisce a questi due popoli di chiamare liberamente casa la terra che riconoscono come tale dipende dall’esclusività con cui ne viene interpretata l’appartenenza».

ALTRA COLLABORATRICE del Manifesto è Sarah Parenzo che compare nella raccolta con «La sinistra di fede e prospettive ebraiche di critica del sionismo» e riferisce l’esperienza dell’israeliano Smol Haemunì, un movimento trasversale di religiosi, costituitosi proprio in risposta alla crisi politica e che è iniziato nel 2023 unendo ebrei osservanti e tradizionalisti di diversa provenienza.

A concludere il volume l’intervento di Mario Ricciardi con «L’utopia modesta di Albert Camus», prima dei due comunicati del Laboratorio ebraico antirazzista che hanno provocato non poco dibattito all’interno del mondo ebraico italiano.

Un libro breve che ha richiesto sforzo intellettuale e culturale e che si impegna ad uscire dalla logica binaria del torto e della ragione per offrire senso ad una lettura politica.