L’altro sabato mi sono ritrovata a piazza Sempione a Roma, inizio del quartiere Montesacro, per un’assemblea all’aria aperta convocata dal Municipio III, uno di quelli che vorremmo ci fossero dappertutto. A sedere su una pedana anziché in piedi su un palchetto: questa la sola differenza con quello che chiamavamo comizio e ora non si fa più.

Ma il mio sussulto di nostalgia non è stato solo per questo: proprio in quella piazza, prima ancora che nascesse questo quotidiano, ebbe sede il primo «circolo del Manifesto», partorito dal locale «collettivo edili», diventati, insieme a molti altri niente affatto edili, sin da subito – e certo molto per merito del prestigio nella federazione romana del Pci di Aldo Natoli – lettori della rivista appena uscita.

Quella definizione – circolo – influenzò il nome che assunsero tutte le strutture simili che in poco tempo si auto-costituirono in giro per l’Italia e che chiamammo “Centri d’iniziativa comunista del Manifesto”. Noi stessi rimanemmo sorpresi di questa proliferazione spontanea che ci costrinse a lungo a percorrere l’Italia per verificare chi erano quelli che con tanto entusiasmo avevano deciso di assumere il nome Manifesto.

Non so cosa ho detto quel sabato. So solo che ero distratta, con lo sguardo, e il cuore, appuntato alle finestre dello storico locale. Perché i ricordi della nostra storia mi avevano assalita e, con quelli, l’emozione.

Il quotidiano non nacque con questa stessa casualità, voglio dire senza una vera decisione. Ricordo che Luigi, quando ci ritrovammo attorno tanti circoli cresciuti come funghi e capimmo che erano diventati, piaccia o non piaccia, parte della nostra stessa impresa, scuoteva la testa e, autoironicamente ripeteva: «E dio solo sa che non avevamo nessuna voglia di fare un partito!».

Ci fummo spinti, anche perché sentimmo subito quanto era brutto aver pensato che noi scrivevamo e i ragazzi avrebbero dovuto limitarsi a leggerci.

Il quotidiano fu invece voluto e assunto con una decisione ragionata e collettiva. Nell’editoriale del n.12 /1970 della rivista, non firmato ma da lui scritto, lo spiega Luigi Pintor – direttore designato perché, come riconobbe anni dopo Berlinguer, il più bravo giornalista d’Italia.

«Il corpo sociale – disse Pintor – è infinitamente più ricco di energie di quanto le avanguardie politiche non possano esprimere. Ma per usarle sul serio deve produrre una mobilitazione e una strumentazione adeguate all’impresa. Il Manifesto mensile è stato una scelta di campo e un veicolo di idee. Un Manifesto quotidiano è la risposta naturale e quasi obbligata a una fase di crescita».

Come si siano sviluppate le cose in molti lo sanno perché sono stati protagonisti di quella storia, molto meno gli attuali lettori per evidenti ragioni di età. Se sono tornata a parlare ora delle circostanze della sua nascita non è solo per l’amarcord di Montesacro, è perché sono inquieta, come quasi tutti noi, del resto.

Nel senso che avverto la drammaticità di tutti i problemi epocali che abbiamo di fronte e insieme l’estrema inadeguatezza delle nostre forze; e però, contemporaneamente sento, come dicemmo allora – e lo verifico ogni giorno – che oggi ancor più di ieri «il movimento sociale è molto più ricco di energie di quanto le avanguardie politiche non possano esprimere».

Sento dunque che abbiamo una grande responsabilità nel colmare questa inadeguatezza. Che è anche del manifesto, un nome che include non solo chi il giornale lo fa, ma quelli di noi che sono solo lettori, o spesso, come me, lettore e stretto collaboratore.

Nel corso di questi 50 anni che oggi celebriamo discussioni, anche aspre, sul ruolo politico del giornale, non sono mancate: questo stesso quotidiano, come ricordavo prima, è nato per rispondere a un’esigenza del movimento; che poi è diventato un partito, da cui nel ’78 si è separato, con lacerazioni pesanti, che non hanno tuttavia impedito che così forte rimanesse fra chi si trovò impegnato da una parte e chi dall’altra, di ritrovarsi in successive comuni avventure.

La più importante delle quali è stata certamente la seconda «Rivista del Manifesto», pubblicata fra il 1999 e il 2004, direttore Lucio Magri, animatori, non solo tutti quelli della prima rivista, ma anche quelli che pur parte determinante della stessa area Pci da cui il Manifesto era nato, non avevano, nel 1969, voluto oltrepassare il confine entro cui il dissenso era consentito: Ingrao innanzitutto.

Per non parlare dell’amicizia che ci ha continuato a legare, non so se tutti hanno compreso quanto emotivamente dolorosa sia stata per Rossana la scelta di accompagnare Lucio sino all’ultimo momento della sua vita, e come mai lui abbia chiesto proprio a lei di aiutarlo a vivere la scelta di morire.

Negli atti del più difficile momento della nostra storia – il congresso del Pdup a Viareggio nel novembre 1978 – trovo una dichiarazione mia e di Valentino in cui si dice «Il conoscersi e volersi bene non è dato psicologico ma squisitamente politico».

Non ho scritto tutte queste cose per riaprire oggi la discussione che avemmo allora: il contesto in cui avvenne è così diverso da quello attuale che non avrebbe senso. Ho voluto però richiamare quel problema, perché è tuttora un problema del manifesto che come tutti non solo sappiamo, ma sentiamo, non è solo un giornale, ma qualcosa di molto di più.

Oggi in particolare, da quando è il solo quotidiano di sinistra sopravvissuto, e quello sul quale si ritrovano le firme di tutti i pezzi della nostra frantumata area. Che naturalmente non è un partito, né può essere suo compito di crearne uno.

E però vorrei che in questo anniversario concordassimo nel non considerarlo solo strumento di comunicazione, ma punto di riferimento di uno sforzo di costruzione di una linea, di un progetto.

Voglio dire di impegnarci non solo a esprimervi il nostro rispettivo punto di vista, ma a studiare come farlo vivere collettivamente per trarne un agire almeno simile. Innanzitutto per contribuire a fare del manifesto non solo luogo di confronto, ma anche di orientamento.