Cultura

La «radiodatazione» e l’età degli organismi

La «radiodatazione» e l’età degli organismiMuseo dei Neandertal a Mettmann, in Germania

Intervista Parla la scienziata Sahra Talamo, che sabato sarà ospite al CicapFest di Padova. «Nello studio della preistoria la tecnologia è sempre più importante e all’avanguardia. Senza le conoscenze degli storici, però, non si fanno progressi»

Pubblicato circa un mese faEdizione del 11 ottobre 2024

Sahra Talamo, professoressa ordinaria all’università di Bologna, sfrutta la fisica e la chimica per studiare la preistoria. È un’esperta di «radiodatazione», l’ingegnosa tecnica con cui riusciamo a risalire all’epoca in cui sono vissuti gli organismi che oggi rinveniamo fossili. Si basa sull’instabilità del carbonio 14 o «radiocarbonio», una forma instabile del carbonio i cui atomi si trasformano in azoto a un ritmo lento ma costante. Ogni organismo lo assorbe dall’atmosfera respirando e ne contiene una quantità fissa. Dopo la morte questo processo si arresta e il carbonio 14 gradualmente svanisce: dalla quantità di radiocarbonio residua in un fossile possiamo dunque risalire al tempo trascorso della morte. Dagli anni ’60 questa tecnica ha rivoluzionato il modo con cui indaghiamo il passato. Talamo la usa per studiare le grotte in cui hanno vissuto, e forse convissuto, i Neandertal e i primi sapiens arrivati in Europa oltre quarantamila anni fa. Lo racconta nel saggio Misurare la storia. La nuova linea del tempo dell’evoluzione umana, (RaffaelloCortina, recensito in queste pagine il 30 luglio). «Il radiocarbonio è stato fondamentale per l’archeologia recente – spiega – Tutta la cronologia sugli Egizi che abbiamo imparato sul sussidiario si deve al radiocarbonio, così come il racconto della preistoria nelle enciclopedie». Lo racconterà dal vivo a Padova domani al CicapFest (in corso fino a domenica 13).

Qual è la scoperta più importante che ha ottenuto con il radiocarbonio?
Ho nel cuore lo studio del cosiddetto «Castelperroniano», una cultura risalente a circa 40mila anni fa. Ho iniziato a occuparmene studiando grotta Arcy-sur-Cure (Francia). Nel 2012 abbiamo scoperto che i gioielli trovati nella grotta sono opera dell’uomo di Neandertal. Nel 2020 l’analisi di un altro sito, quello di Bacho Kiro in Bulgaria, è addirittura in copertina su Nature: riguardava gioielli simili a quelli di Arcy-sur-Cure, ma fabbricati da sapiens e risalenti a qualche millennio prima. Abbiamo dimostrato che i sapiens erano in Europa già 45mila anni fa, cioè prima di quanto si ritenesse. E abbiamo trovato le prove che i Neandertal hanno copiato da noi la tecnica di fabbricazione dei gioielli trovati a Arcy-sur-Cure.

C’è un particolare motivo per cui è così interessata ai Neandertal?
L’idea che nel passato abbiamo conosciuto un’altra specie umana mi ha sempre affascinata. Non sappiamo perché Neandertal sia scomparso né perché al mondo sia rimasta una sola specie umana, mentre ci sono 3500 specie di zanzare. Oggi però sappiamo che i Neandertal erano molto evoluti. Quando li abbiamo incontrati, erano in Europa già da anni e avevano superato glaciazioni e cambiamenti climatici. Visto il loro adattamento, siamo sicuri che non si siano estinti per colpa di un cambiamento climatico.

Quali sono le possibili alternative?
In parte li abbiamo incorporati geneticamente. Mediamente i sapiens hanno il 2% di dna in comune con Neandertal. In un individuo rinvenuto in Romania la somiglianza tocca addirittura al 9%. Quindi l’accoppiamento tra sapiens e Neandertal è stato sistematico, anche se forse non intenzionale: essendo avvenuto solo tra maschi Neandertal e donne sapiens, non possiamo dare per scontato che si trattasse di incontri amichevoli. Tuttavia non abbiamo tracce di combattimenti: finora nessuno ha trovato uno scheletro di Neandertal colpito da una punta aurignaziana (l’aurignaziano è una cultura sapiens sviluppatasi tra i 35 e i 40 mila anni fa, ndr). Ma siamo certi che la loro estinzione è colpa nostra: abbiamo occupato la loro nicchia ecologica cacciando gli stessi animali con tecniche più sofisticate. Da indagare anche le spiegazioni genetiche, dato che nei loro 400mila anni di storia i Neandertal si sono evoluti. Magari nell’ultima fase non facevano abbastanza figli? Sono risposte che richiedono molto tempo, perché studiare un singolo sito porta via anni di lavoro.

Oggi si può diventare archeologi partendo da una facoltà scientifica?
Nello studio della preistoria la tecnologia è sempre più importante e all’avanguardia. Senza le conoscenze degli storici però non si fanno progressi. Fondamentale è che le due matrici, quella scientifica e quella umanistica, si integrino. Servono archeologi «smart». La tecnica del radiocarbonio prevede una distruzione del campione, per quanto piccolo esso sia. A me è capitato di ascoltare un chimico che parlava di un metodo per valutare il livello di deperimento della frutta senza ispezionarla direttamente. Ho pensato che si potesse fare la stessa cosa con il collagene osseo, il tessuto necessario per la datazione, e ne è nata una collaborazione per sviluppare un datazioni meno invasivo. Ecco cosa intendo per un’«archeologia smart».

Una sola datazione con il radiocarbonio può mettere in discussione decenni di ricerche archeologiche effettuate con i metodi tradizionali. È un rischio?
La scienza ha fatto grandi progressi: se questo ci obbliga a rivedere alcune posizioni, meglio. Lo studio di Arcy-sur-Cure ne è un esempio: è un sito noto dagli anni ’40 e da allora si era sempre pensato che Neandertal non avesse l’abilità di creare gioielli, che quindi erano sempre stati attribuiti a Homo sapiens. La radiodatazione ci ha fatto cambiare idea. È un processo inarrestabile: la prossima generazione di ricercatori scoprirà metodi di datazione ancora più precisi. Per questo la conservazione dei reperti è fondamentale.

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