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La questione del manifesto, comitato centrale del Pci 1969

La questione del manifesto, comitato centrale del Pci 1969Magri e Ingrao – Mimmo Chianura

Documenti Il discorso di Ingrao sulla radiazione del manifesto alla prima riunione del comitato centrale del Pci, 15 ottobre 1969. Il 27 novembre 1969 Aldo Natoli, Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Lucio Magri vengono radiati dal Pci. Contro la radiazione si espressero Cesare Luporini, Lucio Lombardo Radice e Fabio Mussi. Tre gli astenuti: Chiarante, Garavini e Badaloni

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 31 marzo 2015
Pietro IngraoComitato Centrale del Pci - 15 ottobre 1969

Concordo con le linee fondamentali della relazione presentata dal compagno Natta e con le proposte che egli ci ha portato a nome della V Commissione.

Concordo sulla necessità di chiedere alle nostre organizzazioni un dibattito approfondito e una lotta politica contro le posizioni sbagliate ed i metodi seguiti dai compagni del Manifesto; dibattito e lotta politica che facciano compiere un passo in avanti alla unità del partito attorno alla linea del XII Congresso.

Ritengo, infatti, che non siano ancora sufficientemente chiare a tutti le ragioni e i contenuti politici del dissenso e anche della rottura che si sta aprendo nel corpo del partito e che ci preoccupa e ci turba.

A mio giudizio, la divergenza con i compagni del Manifesto non verte tanto sulla valutazione delle novità profonde della situazione che si presenta oggi al nostro partito, quanto sui modi e sui contenuti con cui dobbiamo affrontarla.
Voglio partire dalla questione che ieri la compagna Rossanda poneva come il punto centrale per ciò che riguarda le prospettive della lotta nel nostro paese: il ruolo dei nuovi organi di potere che stanno sorgendo o debbono sorgere nel processo produttivo.

È sulla importanza e sulla attenzione che occorre dare a questi organi il dissenso vero tra di noi? Non mi pare.

I consigli di fabbrica, «soviet» o strumenti sindacali?

Questo tema è dentro il nostro dibattito. Lo abbiamo visto l’altro ieri sera — faccio solo un esempio — quando con grande forza ed efficacia il compagno Pugno ha investito il Comitato centrale di questo problema. E, del resto, tutto il dibattito, o grande parte del dibattito, che poi avemmo al congresso di Bologna, fu fortemente concentrato su questo punto. Tale tema non solo è nel dibattito nostro: è nell’azione del partito. Esso è una componente dell’azione nostra, non soltanto perché i comunisti partecipano da protagonisti, come risulta da un esame delle lotte, alla costruzione pratica di questi nuovi strumenti di potere, ma perché questo sgorgare di forme nuove di partecipazione operaia è strettamente legato ad alcuni orientamenti di fondo della nostra politica; ad una determinata concezione e prassi del sindacato per cui noi ci siamo battuti; allo stabilirsi di un rapporto tra sindacato e masse al quale, sia pure con difetti e seri ritardi, abbiamo dato un importante contributo, a tutto il nostro discorso sui contenuti e sulle forme di una democrazia operaia. Mi riferisco a quella nostra posizione sulla democrazia operaia che è stata una delle ragioni sostanziali e qualificanti del nostro dissenso sull’intervento militare in Cecoslovacchia e dell’azione che abbiamo condotto su questo grande e delicato tema nella vita del movimento comunista internazionale.

Voglio, insomma, sottolineare un elemento. Senza dubbio la crescita di questi organismi nel vivo della produzione apre problemi nuovi che non abbiamo ancora affrontato in modo adeguato alla loro importanza e delicatezza, come sottolineava nel suo intervento il compagno Pugno. E tuttavia tale problematica nuova, con cui siamo chiamati a misurarci in modo urgente, si presenta a noi in seguito ad uno sviluppo del movimento di lotta di cui è stato parte, elemento decisivo, il nostro partito. Quando ricordo ciò, non lo faccio per tranquillizzare noi stessi, o per indulgere a trionfalismi. Anzi lo faccio perché sia possibile individuare i punti reali del dibattito e — più ancora — quale è la vera, difficile ricerca che noi dobbiamo compiere attorno a questa tematica.

Ecco allora la domanda: che cosa sono, oggi, questi organismi nuovi che stanno sorgendo a livello della produzione? Che cosa tendiamo a fare che siano?

Qui bisogna uscire da un’ambiguità, che invece non è stata sciolta dai compagni del Manifesto, i quali pure si richiamano continuamente ad un rigore di analisi. Debbono essere — come a me sembra, come mi sembra proponga il partito — nuovi organi di lotta contro lo sfruttamento e contro l’organizzazione capitalistica del lavoro nella fabbrica. Oppure debbono operare e svilupparsi come «soviet», cioè come organi di classe che divengono o tendono a divenire, essi stessi, la struttura del nuovo potere statale?

Da una linea orientata verso questa seconda prospettiva, derivano tutta una serie di implicazioni e di conseguenze circa il sistema di alleanze della classe operaia ed il modo con cui questo sistema si forma e si sviluppa. Ad esempio, subito sorge il problema del rapporto tra queste strutture statali «sovietiche» e le grandi masse contadine, viste non in astratto, e sociologicamente, ma cosi come sono venute aggregandosi ed organizzandosi nella storia del nostro paese e nel concreto sviluppo della lotta di classe che si è avuto da noi.

Sorge, insomma, il problema delle forme statali (e cioè di organizzazione del potere) attorno a cui riteniamo possibile realizzare — nelle condizioni di capitalismo maturo e nel contesto specifico della nostra società nazionale — un blocco operai-contadini, che sia fondato su un’egemonia della classe operaia, cioè su un rapporto di alleanza basato sul consenso. Si presenta il problema degli istituti e delle forme politiche, mediante i quali spostare e spingere ad un incontro con la classe operaia determinate forze di ceto medio produttivo, che noi abbiamo affermato essere una componente importante di un blocco storico il quale sia capace, nelle nostre condizioni, di fronteggiare e sconfiggere le «reazioni» del grande capitale.

È evidente che si presenta, qui, la questione del nostro atteggiamento verso un suffragio universale, fondato su una pluralità di partiti, in un paese fortemente «ideologizzato» com’è l’Italia: dove esistono, cioè, tenaci tradizioni di più partiti operai legati al movimento di classe; dove il complesso di forze che usiamo chiamare «movimento cattolico» si è formato avendo come retroterra, per circa un secolo, strutture millenarie come la Chiesa; dove sempre così stretto è stato il rapporto tra politica e cultura. In un paese — aggiungo — in cui la stessa costruzione di organismi unitari sindacali, che ci premono cosi profondamente, è stata ed è legata al modo con cui affrontiamo le questioni dello «Stato» cui accennavo prima (e, difatti, i passi in avanti, compiuti in Italia nella costruzione dell’unità sindacale, sono stati legati anche al modo con cui la sinistra operaia, in Italia, ha impostato tutta la sua strategia per ciò che riguarda la questione del suffragio universale, del sistema dei partiti, del modo con cui concepire un rinnovamento della sovrastruttura statale).

Per questi motivi, assumere gli organismi di potere, che stanno sorgendo nella fabbrica, come base e germe di soviet, cambia il carattere delle nostre alleanze, richiede che si costruiscano in tutt’altro modo i rapporti della classe operaia con i contadini e con gruppi sociali intermedi; e sposta profondamente le forme di avanzata al socialismo cosi come le siamo venute definendo. Una tale scelta, soprattutto, rende problematica e difficile, secondo me, la prospettiva, che è fondamentale nella nostra strategia, di riuscire a mutare, in senso socialista, le strutture di fondo della società italiana, senza andare ad una linea «classe contro classe», senza essere costretti a cadute verticali del sistema produttivo, che porterebbero a forme coercitive pressoché obbligate e fatali.

La questione è, cioè, sostanziale perché riguarda il carattere, le forme, l’ampiezza del sistema di alleanze della classe operaia ed il modo stesso — aggiungo — con cui costruire una unità della classe operaia, che resista alla difficile guerra di posizione necessaria in un paese di capitalismo maturo. Ciò significa che il nostro discorso su determinate forme di democrazia politica non è dovuto a «prudenza» legalitaria oppure a un democraticismo separato dalla nostra strategia al socialismo: è legato, invece, alla nostra strategia di avanzata al socialismo, al blocco di forze sociali che ci è necessario per vincere in Occidente, a un’egemonia della classe operaia che sia fondata sul consenso. E d’altra parte, proprio se vogliamo affrontare sul serio il discorso sugli organismi operai a livello del processo produttivo, non possiamo eludere la questione del loro rapporto col momento «generale», nazionale e statale.

Se sono esatte queste valutazioni il vero compito non sta nel riproporre, astrattamente e meccanicamente, una tematica consiliare, ma nel costruire un tipo di potere nuovo, in cui la forza dei movimenti di base, anche a livello della produzione, si intrecci alla formazione di un sindacato unitario di classe, promotore e suscitatore di una democrazia operaia nella fabbrica; si intrecci ad una rete di associazioni nelle campagne che superino la dispersione contadina e garantiscano un più forte ed originale peso a questa grande forza sociale; si intrecci alla conquista di uno spazio democratico della scuola, a un rapporto nuovo tra cultura e masse sfruttate; e tutto ciò si colleghi alla conquista di posizioni maggioritarie della classe operaia e dei suoi alleati negli organismi politici generali, basati sul suffragio universale.

Questo tipo nuovo di potere delle masse sfruttate, non l’intendiamo come una assurda «sommatoria» di organismi, l’uno affiancato all’altro. Noi pensiamo ad una interazione tra i diversi momenti di potere. Ad esempio: noi pensiamo che il sorgere di forme di democrazia operaia nella fabbrica non cancelli il ruolo del sindacato, ed anzi sia oggi la base per una «presa» nuova del sindacato e — ancora più — per aprire processi, nuovi anche nella sovrastruttura politica. Voglio dire che la conquista di poteri di intervento, a determinati livelli del processo produttivo e della vita sociale, spezza un sistema di rapporti tra masse e partiti borghesi interclassisti e quindi obbliga determinate forze a trasformarsi, crea basi nuove, in questo modo, perché, nelle assemblee elettive, i partiti a base popolare funzionino come «corpi politici» esposti alle spinte del paese e non come «macchine» obbedienti a gruppi di potere. E, d’altra parte, cerchiamo di costruire — ed è un compito non semplice, lo stiamo sperimentando, anche a livello del parlamento — un’azione nelle assemblee elettive che non sia concepita come punto conclusivo delle lotte ma, con le sue decisioni, attivi e favorisca la crescita di poteri dal basso e, più in generale, l’organizzazione delle masse nella battaglia per la loro emancipazione.

Questa è la ricerca originale con cui noi ci dobbiamo misurare, se non vogliamo limitarci a recepire passivamente gli stimoli e la problematica che ci vengono dalla crescita dei movimenti di base, ma vogliamo collocare la maturazione di questi strumenti di potere dal basso in una visione strategica, in un tipo di avanzata al socialismo.

A me sembra che l’impostazione data dai compagni del Manifesto resti al di qua di questa che è la vera novità su cui occorre impegnarsi. Anzi, temo che la loro impostazione possa ributtare il partito verso false contrapposizioni, che finiscono per non affrontare i nodi, le difficoltà, le discriminanti reali di una politica nuova. Dico anche che al fondo del dibattito con i compagni del Manifesto c’è anche una questione, per cosi dire, teorica e che riguarda il nesso tra processi sociali e sovrastruttura politica, il rapporto tra questi due momenti. Secondo me, in una società a capitalismo avanzato, gli stessi «movimenti» di base di cui tanto parliamo non sono mai pura «immediatezza», non sono «spontaneità» così come la si intende, ma nascono e si sviluppano più che mai intrisi di politica, condizionati fortemente dalla sovrastruttura politica. E guai se noi dimentichiamo che la crisi di certi partiti, il sorgere di nuovi «canali» di esperienza e lotta politica, cambiano sì i termini, e tuttavia non cancellano questo nesso — che invece diventa sempre più stretto — tra società civile e società politica, tra struttura e sovrastruttura. Mi sembra che le divergenze circa i rapporti con la DC o con il PSI hanno la loro origine su questo retroterra più profondo e non tanto in valutazioni diverse sulla situazione contingente di questi partiti, in un maggiore o minore «pessimismo».

La compagna Rossanda, ieri sera, si richiamava a Gramsci. Ma Gramsci e la lezione gramsciana stanno nella tematica consiliare e poi in tutta la riflessione dei Quaderni del carcere. Gramsci è la coscienza di questo rapporto nuovo tra struttura e sovrastruttura, come si pone nei paesi di capitalismo maturo; è la riflessione su questo nodo teorico e pratico come punto di partenza per capire le ragioni della sconfitta radicale che subimmo nel primo dopoguerra e per cercare una nuova strategia di avanzata al socialismo. Purtroppo questa ricerca è andata avanti assai faticosamente. E dobbiamo riflettere sugli insuccessi a cui è andato il movimento comunista internazionale, quando ha pensato troppo facilmente di superare altre correnti politiche operaie di lunga tradizione, sia attraverso «scissioni» a base settaria, sia sulla base di limitate convergenze «frontiste». Dobbiamo essere consapevoli del prezzo pesante che è stato pagato dalla III Internazionale, da tutta l’esperienza della III Internazionale, per non avere compreso, in tempo e a sufficienza, la «durata» che, nelle società dell’Occidente capitalistico, avevano organizzazioni di classe, partiti operai e ideologie ad essi legate (ad esempio la socialdemocrazia).

I partiti comunisti e il «maggio» francese

Dobbiamo riflettere anche all’esperienza, così importante e vicina, del «maggio» francese. Essa, certo, ci mostra la maturazione di «canali» e di nuove forme di lotta, ma ci dice anche il disastro cui si va quando si pensa di cancellare d’un soffio la sovrastruttura politica in tutto il suo «spessore»: quando si smarrisce e si dimentica che il gollismo non è solo De Gaulle, e quando si pensa di ridurre, superficialmente, la storia — anche tormentata, anche con limiti ed errori — del Partito comunista francese a quella di una pura setta di burocrati.

Qui sorge l’altro punto importante di dissenso. È il lavoro del nostro partito all’altezza di questi nuovi problemi? È adeguato al compito difficile e originale di costruzione di un nuovo potere delle masse? Credo che sia profondamente sbagliata qualsiasi posizione che oscuri la pressante esigenza di un elevamento dell’azione del nostro partito e, più in generale, della sinistra italiana per portare avanti una risposta reale a questa tematica nuova. E tuttavia, per individuare le forme e le tappe di un rinnovamento della sinistra, anche in questo caso bisogna sciogliere un nodo.

Quando si parla — come ha fatto Rossanda — di una dialettica tra movimenti e partiti, a che cosa ci riferiamo? All’astratta categoria «partito» oppure a questo partito comunista e a questi partiti operai, sorti nel concreto sviluppo dello scontro di classe? La risposta può sembrare ovvia. Eppure non lo è, perché se assumiamo come soggetto fondamentale di questa dialettica e, io dico, di questa visione strategica, come forza essenziale, come nostra parte, come nostra milizia, questo partito — dando con ciò una valutazione politica indispensabile per un ragionamento rigoroso — allora è chiaro che le proposte di adeguamento, di sviluppo, di rinnovamento e anche di trasformazione della avanguardia rivoluzionaria debbono partire da questa concreta realtà, da questo Partito comunista italiano, che è, con tutti i suoi limiti, la nostra «carta» essenziale; che è la nostra parte; e quindi debbono partire dalla sua storia, dalla sua dinamica, dalle sue potenzialità.
Ogni discorso di rinnovamento insomma, se vogliamo portarlo avanti seriamente, dobbiamo ancorarlo a ciò. In realtà, i compagni del Manifesto hanno aperto un discorso che è ben più ampio e delicato di quello di un rinnovamento e di uno sviluppo del partito. Hanno parlato di «rivoluzione culturale», hanno parlato di «riforma generale» e di «rifondazione». Non voglio adesso sottolineare la gravità della rottura delle regole del partito che — dobbiamo dirlo a noi stessi, a tutti — possiamo sì cambiare, poiché sono regole storiche, e niente affatto «eterne», ma che possiamo solo cambiare insieme.

Il Pci tra «rifondazione» e «rinnovamento»

Non voglio sottolineare questo punto, su cui sono state dette con forza nella relazione del compagno Natta cose che io condivido; voglio sottolineare che un proposito cosi grave e rischioso è stato avanzato fuori da una valutazione dei processi reali in atto nel partito, sia delle sue tradizioni e componenti storiche, sia del cammino, faticoso e difficile, ma visibile in cui noi siamo impegnati. Che concretezza ha parlare di rinnovamento, senza partire dal XII Congresso, ad esempio, da ciò che è stato il XII Congresso come sforzo e ricerca di nuove vie? E non solo per i discorsi che sono stati fatti a Bologna, per la tenuta di quell’assise. E non solo per il fatto che, per la prima volta forse nella storia del movimento comunista internazionale dell’ultimo quarantennio, i dissenzienti sono stati chiamati a fare parte del Comitato centrale. Ma per un’altra ragione più di fondo, che è la vera novità del congresso di Bologna; per l’impegno che già prima dell’assemblea di Bologna, nei congressi provinciali, nei dibattiti di base, quadri e militanti avevano posto nel collegare il loro lavoro ad un dibattito sulla strategia; per l’azione che, prima del congresso e in rapporto al congresso, noi avevamo condotto sul tema di un nuovo internazionalismo, di un modo nuovo di essere da parte nostra nel movimento comunista internazionale; per il confronto, con le forze nuove di quadri e di giovani, che si era espresso anche nel travaglio di tutta una serie di congressi provinciali, e anche nel fatto che le file dei comitati federali e di altri organismi dirigenti erano state aperte a una nuova generazione.

Anche stavolta, non ricordo queste cose per trionfalismo, ma per mettere con i piedi per terra il discorso sullo sviluppo e sul rinnovamento del partito, per vedere come possiamo compiere passi avanti reali, che coinvolgano forze effettive, le mettano al lavoro, e spingano davvero ad un processo durevole di elevamento del partito.

So che il termine di «rivoluzione culturale» è un’analogia, e assai sommaria, che a me, per dire la verità, non è piaciuta. Ma analogia per analogia, compagni, lasciatemi ricordare che la rivoluzione culturale cinese non è stata certo un’esplosione di spontaneità. Si è trattato là di una consapevole ed organizzata mobilitazione di forze che erano massicciamente presenti nel partito e nella società; e si è fatta agire fortemente anche la tradizione, sotto la forma molto corposa dell’armata rossa. E tutti quanti sappiamo che si è trattato di un rivolgimento sì; ma di un rivolgimento fortemente guidato dall’alto e concluso dall’alto.

Voglio dire che quando si parla di rivoluzione culturale o di riforma generale del partito, anche qui, anche in questa occasione, bisogna dire «come, con chi e per che cosa». E mi riferisco alla storia del partito, alla strutturazione dei suoi quadri, al modo con cui si compie e può essere sviluppato il rapporto fra dirigenti e base, se è vero che la trasformazione di un corpo politico come il PCI non può essere affidata solo ad un verticistico confronto di «idee».

Dico di più: una proposta di rivolgimento interno così grave non può essere separata dalla valutazione della fase dello scontro di classe, in cui opera e si inserisce la vita reale del partito.

Tutti noi sappiamo e sentiamo a quale acutezza sta giungendo questo scontro; dalle pagine del Manifesto sembra anzi venir fuori un dilemma: o si va rapidamente ad una transizione al socialismo o si va ad una reazione di tipo fascista. Non condivido questo dilemma e ritengo che tutta la nostra strategia stia nello sfuggire a questo dilemma, nel non lasciarsi rinchiudere in un «tutto o niente», che lascerebbe all’avversario la scelta del terreno e del momento dello scontro totale. Ma o quella proposta di «rivoluzione culturale» è una frase, oppure con quale saggezza si pensa ad una rottura così profonda nel partito, in un momento di lotta sociale così teso e, per giunta, senza definire nemmeno le basi, le tappe, e le prospettive della proposta «rifondazione» del partito?

L’errore e l’infecondità del gruppo del «manifesto»

Sento non solo l’errore, ma l’infecondità di una proposta riguardante la vita interna del partito che si presenta così, davvero, come una proposta « esterna », intellettualistica, e non come iniziativa ed anche lotta politica aspra, ma che si innesti nel vivo dell’esperienza che sta facendo il partito in questo momento, dei problemi e degli spostamenti che sorgono in questa lotta, del processo reale che si compie.

Non per caso i compagni del Manifesto, al di là delle parole che ha detto ieri la compagna Rossanda, sono stati trascinati dalla logica stessa della loro visione ad un’azione che ha caratteri frazionistici e, nella pratica, al di là delle loro stesse dichiarazioni, finiscono col proporre al partito un’organizzazione per gruppi.

Credo, compagni, che noi dobbiamo dissentire nettamente e profondamente dal frazionismo, non solo per disciplina, non solo per tradizione, non solo per esperienze gravi che sono state fatte da altri partiti, a cominciare dal partito socialista, ma per una ragione di fondo, che riguarda questa fase del movimento operaio internazionale, queste novità in cui siamo impegnati. Parlo della necessità di rompere l’illusione nefasta che ha tanto pesato nella vita della sinistra operaia occidentale e anche nella vita del nostro paese, di rinnovare «separandosi», di rinnovare creando sette; illusione profondamente dannosa, che ha ritardato pesantemente il cammino verso l’unità politica di uno schieramento di classe.

Credo che i compagni del Manifesto resteranno al di qua di una risposta giusta agli interrogativi ed ai problemi che stanno dinanzi a noi, quanto più si separeranno e si rinchiuderanno nel gruppo, perché cosi, sempre più, si verrà ad indebolire quel rapporto tra elaborazione, azione e verifica nell’azione, che è per noi marxisti la chiave per costruire una risposta scientifica alle questioni che lo scontro di classe ci pone.

Quando noi poniamo in rilievo che il dibattito ci è profondamente necessario sì, ma nelle sedi comuni del partito, non intendiamo gettare un anatema pregiudiziale su un qualsiasi collettivo. Intendiamo affermare l’esigenza che il lavoro, singolo o collettivo, si rifonda e si verifichi subito nella prassi dell’azione del partito, nelle sedi in cui poi il partito nella sua organicità discute, elabora; decide.

Anche per questo non condivido la sfiducia che si legge nel Manifesto verso i momenti istituzionali che sono invece, secondo me, la condizione per elaborare e per «durare», e quindi sono una forza e non un impoverimento come sostiene Sartre nel colloquio riportato dal Manifesto.

Qui viene il punto più grave e delicato, sul quale non sono ammissibili transazioni; non è ammissibile l’indifferenza ed anzi l’estraneità rispetto alla conclusione cui giunge la discussione negli organi centrali del partito. Una tale posizione di estraneità e di indifferenza vuoi dire davvero una separazione radicale.

Dobbiamo dircelo con chiarezza, compagni. Si può essere convinti che la conclusione a cui giungono gli organi del partito è sbagliata e dirlo; questo può capitare, è capitato a tanti di noi, e noi dobbiamo anche riuscire a trovare metodi migliori per rendere semplice, «normale», e quindi più feconda questa espressione del dissenso. Si può pensare che il dibattito è stato condotto male (io non ritengo che questo sia il caso) e criticare e combattere questa condotta. Si può ritenere anche che vi sia stata coercizione, e battersi contro questa coercizione con fermezza e intransigenza, sino all’ultimo. Ma si deve tener conto delle conclusioni a cui giungono gli organi del partito: per una ragione politica. Non è un fatto di disciplina formale, esteriore, che pure conta: è la prova che si vuole trovare la soluzione giusta con gli altri compagni del partito, e non in un astratto partito, ma nel concreto partito, nella vita reale del partito come noi la viviamo. È la convinzione che l’insieme dei compagni, anche di quelli che sono più lontani dalle nostre posizioni, ci è necessario per la risposta giusta, per la lotta nostra. Ci è necessario, se vogliamo portare avanti una posizione che sì è convinzione del singolo, ma che per essere una posizione giusta, per acquistare forza storica, per incidere nella lotta di classe e non restare velleità o puro progetto intellettuale, deve misurarsi in questo travaglio collettivo. In caso contrario, infatti, o esiste ormai la sfiducia radicale di cui parlava Natta e cioè si pensa ad un altro strumento politico (che può essere una decisione molto grave, che non mi auguro), ma allora è giusto dirlo ed e necessario indicare anche quest’altro strumento politico, oppure, se non è questo, è visione illuministica, intellettualistica dello scontro sociale.

Il dissenso non può riguardare il partito

In tal caso, compagni, il dissenso torna ad essere politico, su un punto decisivo: perché allora il dissenso riguarda il soggetto stesso, il protagonista della battaglia per la rivoluzione; la forza politica fondamentale su cui si punta, quali che siano le difficoltà ed i suoi limiti, che per noi resta, deve restare questo partito, con la sua grande storia, con il suo patrimonio, con i suoi passi in avanti ed anche con i suoi grossi problemi e le sue difficoltà.

La risposta alla richiesta che la V Commissione rivolge ai compagni è perciò un fatto politico, prima ancora che disciplinare; riguarda il modo di collocarsi nel partito, riguarda la scelta del soggetto fondamentale. Perciò noi dobbiamo chiedere ai compagni del Manifesto di riflettere, non in un modo formale, non per vincolo di disciplina, ma perché qui c’è davvero qualcosa che riguarda un punto decisivo per la nostra battaglia e per il cammino di tutta la sinistra italiana.

Questo è il senso vero del centralismo democratico (come strumento per una ricerca comune, per una lotta comune) che noi dobbiamo affermare. Centralismo democratico che è sì — lo dobbiamo dire con franchezza — anche condizionamento per ognuno di noi, condizionamento anche difficile e duro, ma condizionamento necessario per elaborare insieme una via di lotta, per trasformare noi stessi insieme con gli altri e gli altri con noi stessi.

Siamo fortemente consapevoli che ci sono state deformazioni gravi del centralismo democratico e che — più in generale — abbiamo nella nostra storia e nel nostro cammino una dura tradizione di monolitismo che ha avuto sì una funzione nella lotta prima contro la disgregazione socialdemocratica e poi contro la dittatura fascista, ma che ha anche lasciato a noi eredità negative e costumi che non è semplice superare.

Questi problemi però, ed anche i ritardi che dobbiamo ancora registrare, potranno essere superati assumendo, e non ignorando, le esigenze di organizzazione, di durata, di collegamento nazionale ed internazionale, che sono indispensabili ad una grande avanguardia rivoluzionaria, — oggi, alla data del 1969, — per fronteggiare e battere il tipo di avversario di classe che noi abbiamo di fronte. E anche per pesare realmente nella dialettica di un movimento comunista che non si presenta più con le caratteristiche della fine del secolo diciannovesimo, o anche del ’14 e del ’15, ma con la fisionomia di un movimento rigidamente organizzato, in cui — diciamocelo chiaramente — le alternative strategiche si esprimono oggi in Stati, in politiche statali, e addirittura in blocchi di Stati.

Una «mobilitazione reale» contro i «gravi errori»

Quando chiamiamo perciò ad una lotta politica contro i gravi errori dei compagni del Manifesto chiediamo una mobilitazione reale, di sostanza e di impegno, e il modo stesso con cui il nostro partito affronterà e sconfiggerà in questo caso le posizioni sbagliate è importante — dobbiamo averlo presente — per tutta la maturazione del nostro partito: non solo cioè per l’azione necessaria tesa a recuperare su una giusta posizione tutti i compagni, ma anche per il discorso che noi dobbiamo rivolgere alle forze politiche, per il modo con cui noi dobbiamo presentare il nostro partito ed il senso profondo del centralismo democratico.

Certo, la stampa borghese — ed ho finito, compagni — spera di affogarci nel dilemma: o tolleranza verso la rottura o repressione. Noi dobbiamo uscire da questo dilemma con la conquista politica alle posizioni giuste, alla necessità della disciplina, alle ragioni profonde del centralismo democratico come strumento di democrazia e di crescita della democrazia.

Questo vuoi dire anche che noi ci facciamo carico non solo di dire con chiarezza ciò che va condannato, ma di spiegare anche le ragioni di una critica di fondo, di motivare la ragione per cui consideriamo sbagliato tutto ciò e, soprattutto, di sviluppare nel concreto gli strumenti della ricerca, le sedi del confronto ed i modi con cui noi vogliamo conquistare forze nuove alla vita del nostro partito e collegarci alle avanguardie che maturano nella società.

Il nostro partito, forte delle conquiste che abbiamo realizzato in questi anni, forte dei passi in avanti che abbiamo compiuto al XII Congresso e attorno al XII Congresso, deve avere fiducia nella sua capacità di affrontare positivamente le questioni su cui è chiamato a dibattere ed a pronunciarsi.

Certo, so bene — voglio rispondere al compagno Donini — che dietro queste posizioni del Manifesto ci sono dei fatti oggettivi e che in qualche modo anche tali posizioni sbagliate sono il riflesso dei problemi che ci si presentano e che noi non abbiamo affrontato a sufficienza. Chi non sente tutto questo? Non vogliamo nasconderci tutto ciò, ma non possiamo limitarci a registrare le «spinte» del paese. Dobbiamo lavorare per far maturare, nel vivo di questa prova, non solo una più forte unità del partito, ma anche una conquista, una capacità migliore e più forte di condurre avanti la strategia di avanzata al socialismo, che è stata al centro del XII Congresso e che, più lontanamente, è al centro di tutta la ricerca che dai tempi di Gramsci noi veniamo compiendo.

  • nota redazionale: corsivi dell’autore e sottotitoli nostri. Testo tratto dall’archivio di Pietro Ingrao su www.pietroingrao.it.
  • Il 27 novembre 1969 Aldo Natoli, Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Lucio Magri vengono radiati dal Pci. Contro la radiazione si espressero Cesare Luporini, Lucio Lombardo Radice e Fabio Mussi. Tre gli astenuti: Chiarante, Garavini e Badaloni.

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