«Nella mia esperienza, poesia è un atto cognitivo: conoscenza. Dunque un elemento attivo. Né una pausa, né un ripiegamento». Così Pietro Ingrao su «Alfazeta» nel dicembre del 1992. Un convincimento che aveva avuto modo di argomentare pubblicando Il dubbio dei vincitori, nel 1986, chiarito da una attenzione costante a segnare il margine che distingue il comporre poetico e l’agire politico.

Nel giugno del 1991, «credo, sostiene Ingrao, a una nuova forte attualità del linguaggio poetico proprio su due aspetti della modernità:a) la crisi di visioni unidimensionali della vita e del tempo. Oggi parliamo molto di complessità e di una vita pluriversa; b) la spinta a subordinare, ad adattare la creatività emotiva del vivente a l’agire strumentale, a la razionalità calcolistica. Da qui una nuova attualità del linguaggio poetico per riscoprire la densità del vivente».

Densità che si credeva possibile affermare grazie al movimento di soppressione dei rapporti capitalistici di produzione ad opera della classe operaia. Densità del vivente finalmente liberata. Quello che il giovane Marx indicava come l’umano proprio della ‘proprietà privata soppressa’: il peculiare, il personale.

Il sigillo, diciamo, di ciascuna individualità che è dire il molteplice, il differente, il discreto, il diverso. Scriveva Marx, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844: «ogni tuo rapporto con gli uomini – e con la natura – dev’essere una espressione determinata, corrispondente all’oggetto da te voluto, della tua reale vita individuale».

A Madrid, il 6 giugno 1991, nella lezione Un’analisi del presente tenuta presso l’Università, Ingrao svolge, tra l’altro, queste considerazioni: «lo stacco tra tempo di lavoro e tempo di vita si accentua e si complica. La nozione stessa di tempo cambia: diventa – com’è stato detto – puntiforme; e si attenua perciò la trasmissione della memoria storica e quindi del rapporto passato-futuro. La tensione stessa verso il futuro si indebolisce, a causa della difficoltà di afferrare tutte le dimensioni del presente. Insieme con la dimensione del tempo, stanno mutando momenti vitali. Basta pensare alla sfera della sessualità e del corpo. Al rilievo che ha assunto in una lettura diversa del mondo, con la cultura e pratica femminista della differenza sessuale.

Tutto ciò mette in discussione, non solo in teoria, ma nella pratica, la cultura della ‘centralità operaia’ o, se vogliamo andare fino in fondo, mette in discussione la centralità del produrre, del lavorare, che è stata così tipica del mondo operaio e contadino».

Questa analisi comporta rilevanti conseguenze che è bene assumere nella loro radicalità. Una investe direttamente le forme dell’agire collettivo. Agire politico, agire collettivo. Ingrao ricorre a questi termini per rappresentare una complessa interazione organizzata intesa alla trasformazione dei rapporti sociali dominanti. Nel processo delle sue stesse articolazioni intervengono e contano soggetti diversi e istituzioni. Le regole duttili della democrazia partecipata e l’invenzione di forme nuove corrispondenti a nuovi rapporti, alle inedite interrelazioni che attraversano il corpo della società. Ingrao avverte la «crisi radicale delle vecchie forme dell’agire collettivo.

La difficoltà vera delle vie ed esperienze democratiche esplorate in Occidente ha radici in questo nodo». Da qui una esigenza urgente che reimposti i fondamenti dell’agire politico per «dare nuova base alla libertà possibile degli esseri umani».

È in questo contesto che l’atto cognitivo della poesia assume un ruolo essenziale, si presenta e si impone come un elemento attivo. Allora, «cognizione poetica assorbente ed esclusiva?», si chiede Ingrao. Niente affatto. La poesia nomina «i campi lesi dalla riduzione del vivente a quantità», ma va perseguita una «pluralità delle angolazioni cognitive necessarie per l’ampiezza di relazioni col reale».

Nel settembre del 1991 dichiara a «Leggere»: «senza dubbio il mio comunismo è cambiato moltissimo. Il modo in cui vedevo, sia la teoria comunista che la strategia comunista di liberazione delle masse oppresse; il modo stesso in cui vedevo quel mondo che si chiamava comunista è molto, molto diverso dall’idea che è venuta in seguito».