Pietro Ingrao ha attraversato un secolo di orrori, dolore, lutto, desiderio di riscatto, grandi speranze, ricostruzioni, errori e riparazioni, delusioni, disincanto, riflusso, sconforto, rabbia e rassegnazione. È andato in là con gli anni senza perdere contatto col sentirsi giovane. In un momento in cui si cerca di uscire dalla disperazione con la ricerca ossessiva di un’euforia vacua, la tristezza è la cosa preziosa che Ingrao, andandosene, ci ha regalato.

Se ne va con lui un pezzo della passione politica che ha dato voce ai deboli e agli esclusi, ha risposto alla loro domanda di lavoro, dignità e sapere e ha reso questo paese più giusto, più colto e più degno di sé. In Ingrao la passione diventava visibile, si materializzava, nella sua arte retorica. Il suo parlare per espansioni successive del discorso e traiettorie centrifughe, che poi, miracolosamente, convergevano, anticipava simbolicamente ed emotivamente il percorso della trasformazione di prospettiva da lui delineato. Il dispiegarsi imprevisto dell’argomentazione, catturava l’inconsueto, dando forma al processo di cambiamento desiderato.La capacità di cogliere nelle spinte contraddittorie e nelle forze divergenti la potenzialità di un rinnovamento profondo laddove stagna l’esistente, è proprio ciò che viene a mancare in epoche di disillusione, inevitabilmente prive di lucidità.

La tristezza mantiene un legame forte con le cose resistenti alla stagnazione, non è la contrizione narcisistica prodotta dalla perdita dell’illusione. Protegge la lucidità dalla disillusione, impedisce che la nostalgia, volgendo verso l’idealizzazione difensiva del passato, fermi il tempo della vita e porti alla segreta svalutazione della vita reale. Segnala che il dolore acuto del lutto è ammorbidito dalla permanenza interna della cosa perduta.

Siamo tristi quando il sentimento di mancanza si connette con la consapevolezza piena del valore che ha per noi ciò che manca: la premessa/promessa di un ritrovamento, il quale può anche essere lontano ma può essere sognato, non è più impensabile dentro di noi. L’incapacità a essere tristi mostra che il lutto è stato aggirato e sostituito dal cinismo: il calcolo prende il posto della passione responsabile (la passione che protegge il suo oggetto) e fa dell’inconsapevole vampirismo (usare la cosa viva per far apparire vitale la cosa morta) lo strumento principale dell’immobilismo psichico.

La morte di Ingrao coincide con un’eclissi collettiva della capacità di vivere il lutto, che ha determinato la crisi in cui vivacchiamo ammalandosi. Quando “ il vecchio sta morendo e il nuovo non è ancora nato”(Gramsci) la carne viva dell’esistenza si putrefà.

In Bonjour tristesse, Françoise Sagan descrive il disincanto dei sentimenti d’amore, la putrefazione del desiderio in una società ancora malata dopo la psicosi nazista, la più grande catastrofe della storia. La protagonista, una ragazza di 17 anni, che spinta dalla gelosia, causa involontariamente il suicidio della donna di suo padre (un’amica della madre morta), rischia di restarci impigliata. Tuttavia, ciò che in lei resta vivo la riapre di nuovo al mondo sotto forma di tristezza. La tristezza dell’infanzia (il giorno che si scopre che i genitori muoiono), che fa capire cosa del vecchio deve restare vivo perché il nuovo nasca, torna nella sua educazione sentimentale agli esordi della vita erotica.

È giusto essere tristi mentre accompagniamo Ingrao all’avvenire di un passato che è vivo dentro di noi.

Buongiorno tristezza. Facci vedere il mondo con gli occhi del sogno, lo sguardo della gioventù radicato nella nostra infanzia.