Pietro Ingrao e Attilio Lolini, versi e parole
ITINERARI CRITICI «L’azzardo della poesia. Nove lettere dell’anno duemila», a cura di Tommaso Di Francesco e Alberto Olivetti. Nelle edizioni Bordeaux è ora raccolta e disponibile la corrispondenza tra i due poeti e intellettuali
La poesia è la forma espressiva più compiuta dell’ultima stagione di Pietro Ingrao che con essa recupera un amore primordiale e infatti dà alle stampe fra il 1986 e il 2000 tre raccolte (Il dubbio dei vincitori, L’alta febbre del fare – del ’94 – e Variazioni serali) che già nei titoli denotano una forte tensione etico-politica e, prima ancora, un’aspra dialettica tra l’impulso a operare concretamente (anche quando limiti oggettivi lo inibiscano o lo contrastino) e quello viceversa a ritrarsi in una silenziosa meditazione. Per quanto possa apparire paradossale nulla è più lontano dalla poesia di Ingrao della postura impegnata mentre vi prevalgono i motivi più astratti e uno stile scandito, scosceso, dove si avverte la lezione secolare non soltanto degli Ungaretti e dei Montale ma anche (e lo avvertì Gianni D’Elia recensendone sul manifesto la terza raccolta) di un Clemente Rebora, come nei versi seguenti da Vigilie: «Frugammo sentieri nei libri reclusi/ o, sepolti reperti/ d’insorgenze, amari rivolgimenti falliti».
Ingrao presenta il libro dell’esordio poetico il 18 febbraio del 1987 all’Università di Siena e gli è vicino un parterre che comprende Franco Fortini, Gianni Scalia e Alberto Olivetti, il quale metterà agli atti la serata nel prezioso libretto Conversazione su «Il dubbio dei vincitori» (Cadmo 2002) dove, per esempio, Fortini rileva: «Questi versi si pongono come epigrafi che chiedono la propria forza al silenzio assiepato tutto intorno; cadute quaggiù, secondo la parola di Mallarmé, da oscuri disastri».
Ed è Olivetti a suggerire a Ingrao di inviare il libro all’amico senese che qualche tempo dopo ne fornirà una particolarissima recensione (ma si potrebbe dire piuttosto un suo personale d’après) su «l’immaginazione», la rivista leccese di Piero Manni dove coglie la temperie, di amara malinconia prima che di effusa nostalgia, fra il Lied romantico e gli spazi raggelati di De Chirico.
L’AMICO DI OLIVETTI è un poeta la cui statura è allora inversamente proporzionale alla notorietà: ha sessant’anni e si chiama Attilio Lolini, è un eccellente musicologo oltre che melomane, è un poligrafo che collabora al manifesto, all’Unità e alla rivista di Antonio Prete «il gallo silvestre», è intestatario delle raffinate semiclandestine edizioni di Barbablù (Fortini, Bilenchi e Jabès, tanto per dire, sono in catalogo) ma innanzitutto Attilio Lolini è il poeta firmatario di Negativo parziale (1974), un libro uscito pressoché alla macchia e tuttavia salutato da Pier Paolo Pasolini, nel deserto della neoavanguardia, come una incredibile e persino assurda fioritura poetica fuori stagione.
In appendice al libro, i cui testi sono conservati all’Archivio Fortini di Siena, vi sono le note di Daniele De Amicis, Gianni D’Elia, Biancamaria Frabotta e Antonio Prete
Ora, Lolini e Ingrao non potrebbero essere personalità più dissimili né potrebbero testimoniare poetiche più diametrali eppure nell’estate del 2000 danno vita a un carteggio di grande interesse i cui testi sono ora conservati nell’Archivio Fortini dell’Università di Siena dove prima di spegnersi, nel settembre del ’23, Loredana Montomoli (l’infaticabile, indimenticabile Lory) ha depositato le carte del marito Attilio: il medesimo carteggio viene ora riunito sotto il titolo L’azzardo della poesia. Nove lettere dell’anno duemila (Bordeaux, pp. 144, euro 14), che esce nella attenta curatela di Tommaso Di Francesco e Alberto Olivetti, integrato in appendice dalle testimonianze di Daniele De Amicis, Gianni D’Elia, Biancamaria Frabotta e Antonio Prete.
ORA, mentre Ingrao spedisce da Roma o da Lenola (la cittadina in cui è cresciuto e dove eo tempore scampò suo nonno Francesco, un garibaldino, repubblicano e massone di cui al momento egli sta curando la riedizione del testamento politico, La bandiera degli elettori italiani, che uscirà l’anno successivo da Sellerio), Lolini scrive immancabilmente da San Rocco a Pilli, località nella campagna di Siena che però si insinua nelle fenditure più cruente del suo immaginario con i nomi esiziali di Cologno Monzese e Cinisello Balsamo.
Il tono di Ingrao è riflessivo e preferibilmente auto-riflessivo, quello del suo più giovane interlocutore è pacato ma certe volte stenta a dissimulare le intemperanze e le invenzioni sarcastiche di un immaginario favolosamente indotto all’invenzione parodistica e ad uno sdegno che vira in grottesco, come sanno i lettori della sua più memorabile imitazione, Il mio Cohélet (’86), duplicata dalle postume Variazioni sull’Ecclesiaste ancora per le edizioni l’Obliquo del pittore Giorgio Bertelli. Qui se Ingrao si sente a un culmine o forse ad una clausola («La poesia per me è un azzardo che mi mette ansia» gli scrive il 20 luglio da Lenola), Lolini sta uscendo finalmente dal suo samizdat postsessantottesco, come attesta la memoria di Tommaso Di Francesco.
Perché la parola loliniana è sempre più netta, scarnificata e perfettamente obiettivata, detta in assenza di sovratoni e di additivi convenzionali come di maiuscole e punteggiatura. Ed è una parola che ex silentio ritorna sullo stato di progressiva desertificazione politica e morale cui il poeta assiste con implacabile lucidità. In effetti Lolini non è, alla lettera, un poeta apocalittico, ma semmai tanatologico, e i suoi non sono manichini beckettiani o postatomici ma cadaveri in rinvio di chiamata, morti imbellettati e nondimeno iperattivi, ciarlieri e sempre, sommamente, sfacciati.
Nel 2000 Lolini, grazie a Paolo Di Stefano, affida volentieri alle pagine culturali del Corriere della sera (la rubrica è ricavata in alto ed è la mansarda ideale per un franco tiratore) i propri epigrammi esatti e glaciali, via via fioriti – sono parole di Antonio Prete – «sui resti, sugli scarti, sull’inutile, sul vuoto» ovvero – stavolta è Frabotta a dirlo – «sulla vertigine fra la parola e la sua eclisse». Nella lettera del 27 luglio, Lolini allude alle «poesiole del libretto che allego stampato»: va precisato che il libretto si intitola Poesie futili – come poi la penultima sezione della sua auto-antologia- ed è il programma di sala della lettura avvenuta in Ancona tre giorni prima, la sera del 26 luglio, nel ciclo Poesia in giardino a cura dell’amico poeta Francesco Scarabicchi e di chi sta scrivendo.
Due personalità dissimili, anche nei toni: se l’uno è riflessivo e preferibilmente auto-riflessivo, quello del suo più giovane interlocutore è pacato con delle intemperanze
ATTILIO VENNE in Ancona dopo molte titubanze: nella terrazza del Museo Archeologico a picco sul porto, elegantissimo nel completo di lino, con la muta assistenza del Tavor, lesse in maniera quasi atona, ma proprio perciò micidiale, testi che presto sarebbero confluiti, grazie all’editor Mauro Bersani, nella collana bianca di Einaudi: prima nella corposa auto-antologia Notizie dalla necropoli 1974-2004 (’05) poi in Carte da sandwich (’13) preludio al volumetto Bestiario gotico (’14, ancora da l’Obliquo) che è l’ultimo e testamentario del poeta senese, spentosi a San Rocco il 22 giugno del 2017, solo un anno e mezzo dopo il suo corrispondente del 2000.
Del resto i versi terminali di Lolini non lasciano scampo realizzando la dannata compiutezza di epigrammi o forse di haiku che funzionano da oroscopo tanto per chi scrive quanto per chi legge. Eccone un esempio: «Quelli che stanno/ al di là dallo schermo/ mi guardano strani/ quando di notte/ alzo le mani/ a tutti sparando/ col telecomando (Zapping)». Nulla è più remoto da Ingrao di una simile e letale iattanza ma anche lui, e glielo scrive da Lenola il 4 agosto, non può non essere colpito dalla vena, dall’energia e dalla misura (dice proprio così) che risplende nei versi del suo nuovo amico.
* Per iniziativa del «Centro polivalente Pietro Ingrao», domenica 29 settembre a Lenola il volume «L’azzardo della poesia» di Pietro Ingrao e Attilio Lolini, pubblicato da Bordeaux, sarà presentato da Marietta Conti, Tommaso Di Francesco, Valdo Gamberutti e Alberto Olivetti. Antonio Bassolino, Maria Luisa Boccia e Gianfranco Nappi parleranno del numero monografico della rivista «Infiniti mondi» dedicato alla figura e all’opera di Pietro Ingrao.
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