Editoriale

La questione comunista e la crisi a sinistra

1977, Craxi e Manca con Berlinguer, Napolitano e PajettaVertice Craxi-Berlinguer nel 1977 (al tavolo anche Manca, Pajetta e Napolitano) – LaPresse

#ilmanifesto50 La pregiudiziale antisocialista non l'avete mai rimossa. Oggi il punto è: quell’eresia, la vostra eresia, trasformatasi per molti ma non per voi in abiura dell’intero orizzonte concettuale del movimento operaio, può ancora funzionare come lievito di un progetto di rigenerazione della sinistra e, ad essere più chiari, del socialismo?

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 28 aprile 2021

Cari compagni del manifesto, celebrare un assai significativo anniversario come i cinquant’anni del manifesto è soprattutto per me occasione di riflessione, mettendo a tesoro e con uno sforzo di riordino tra i ricordi, i momenti che hanno intrecciato la vostra storia con le vicende del partito socialista e i tanti momenti, anche recenti, del mio personale rapporto con il vostro «quotidiano comunista».

Evitando espressamente le paludi che circondano spesso gli anniversari nelle cui acque scompare il pensiero auto-critico mentre affiorano abbondanti le nostalgie e i ricordi del passato.

In primo luogo un dato emerge a partire da quel Comitato centrale dell’ottobre del ’69, denso e appassionato, nel quale il Pci discusse pubblicamente e risolse la Questione del Manifesto. Mi riferisco al dato, chiaro e chiarificatore, del rispetto e dell’attenzione che i socialisti riservarono a quel particolare e forse anche inaspettato dissenso, inaspettato per la sua valenza ideologica politica e culturale, che risaliva da quel corpo politico, il Pci, orgoglioso della sua forza e della sua «diversità» non più tale, quest’ultima, dopo quella rottura.

Il corpo roccioso e unitario del Pci si apriva, sotto la forma della rottura, a quel pluralismo misconosciuto e vituperato che invece era la forma ordinaria nella quale si manifesta la complessità della politica e con la quale questa si de-ideologizza.

La «questione» del manifesto fu rivelatrice di tante altre questioni.

Per intanto, della produttività politica e non solo sociologica della stagione del ’68, destinata a frantumare tutte le rigidità ideologiche del mondo bipolare, mettendo in crisi il conservatorismo delle classi dominanti sia dell’occidente sia del blocco sovietico.

Difficile negare il nesso tra la «questione» del manifesto e quel fermento nuovo che, in occidente prese il nome di «contestazione» e, al di là della Cortina di ferro, di «dissenso» che investì il vostro iniziale impegno e che, a ragione di quel nuovo fermento, dovette alimentare nei socialisti italiani quel filo di «simpatia», di attenta curiosità, di vigile aspettativa verso quel movimento «ereticale» che stava conoscendo, con voi, la versione nazionale del dissenso sempre più scoperto contro il sistema sovietico militare-burocratico-totalitario che dominava tutto l’Est europeo.

Ma la mia amicizia, resa operosa anche dalle nostre numerose interlocuzioni e dai dialoghi ospitati dal vostro giornale, l’amicizia non strumentale dei socialisti per i compagni del manifesto e, anche, la convergenza realizzata in momenti straordinari della vita del Paese, come la lotta al terrorismo, le perplessità sulla strategia del compromesso storico, i dubbi sulla linea della fermezza durante il sequestro Moro, tutti questi momenti di contiguità, certamente segni di un comune «sentimento» non possono nascondere una estraneità di fondo delle relazioni strategiche tra «noi e voi».

A dire il vero un residuo di «diversità», una alterità di antico lignaggio vi è rimasta addosso.

E’ rimasto, nonostante i verdetti della storia e le determinazioni della politica, il vecchio principio secondo il quale la crisi della sinistra è risolvibile esclusivamente all’interno della «questione comunista», solo dentro il perimetro definito da quella tradizione comunque declinata anche nelle sua formula più ambigua, quella dell’alleanza «democratica», tanto indecifrabile quanto continuamente aperta a nuove trasfigurazioni, sempre centrata sul nucleo duro della alterità.

Che può anche dirsi «pregiudiziale anti-socialista». La stessa pregiudiziale che agì, cento anni or sono, contro il riformismo di Turati considerato il «ventre molle» del movimento operaio, l’anello debole della «catena del valore» rivoluzionario e che l’intera esperienza del manifesto, pur con riconosciuta dignità culturale, non s’è data la pena di rimuovere.

Oggi, il «ventre molle» del riformismo socialista farebbe comodo, sarebbe un solido argine e una credibile risposta alla destra vincente, anch’essa armata di quella pregiudiziale anti-socialista che viene agitata contro la sinistra, dopo averne svuotato i granai del consenso.

Sul terreno di quella pregiudiziale convergono paradossalmente la destra populista e la sinistra non più popolare e fino a quando non sarà possibile la verifica storica e il recupero con il necessario aggiornamento teorico e politico del riformismo socialista, sarà difficile venire a capo della crisi sistemica e nostra, della sinistra, e si allontanerà la possibilità di riordinare il quadro politico paurosamente inclinato verso destra.

Una alterità, un pregiudizio reso ancora più aspro dalla presenza di Craxi alla guida del Psi e, soprattutto, alla guida di una idea di sinistra rinnovata nel segno del socialismo europeo.

L’opposizione al craxismo divenne dura e indistinguibile da quella del Pci. Non si stemperò neanche quando il dissenso degli intellettuali democratici dell’est Europa, che è stato uno dei terreni di qualificazione della vostra rupture, trovò concreta ospitalità nel Psi per un principio solidaristico e per rimettere in discussione quel modello burocratico-autoritario.

Non ci fu dialogo neanche quando fu avanzata dai socialisti, alla fine degli anni ’70, la proposta della «grande riforma» istituzionale, ancorché grezza. Non riuscì a sollecitare un dibattito su una idea di riforma che era (o poteva essere) di realizzazione della Costituzione, tanto cara a Pietro Ingrao, un dibattito incagliatosi sul quel compromesso costituzionale che per gli uni era una inamovibile rendita politico-ideologica, per i socialisti un patto da rinnovare alla luce della evoluzione della democrazia repubblicana e dei nuovi rapporti che si andavano formando sul piano geo-politico.

Ma questa oramai è storia.

Lo scenario che si presenta davanti a noi è ancora più drammatico del tempo della fine della prima Repubblica che privò la democrazia del fondamento dei grandi partiti di massa.

Ignazio Silone profetizzò che la sinistra si sarebbe orientata verso il socialismo democratico solo quando gli ex-comunisti sarebbero stati più numerosi dei comunisti, ma -oggi- tutta quella tradizione e tutte quelle «masse» sono state catturate dalla destra populista mentre la sinistra, abbandonata in quanto «novecentesca», qualsiasi prospettiva di socialismo riformista e alternativo, si affida al paradigma neo-liberale accontentandosi di offrirne una versione «democratica», acriticamente europeista e razionalizzatrice.

Oggi il punto è: quell’eresia, la vostra eresia, trasformatasi per molti ma non per voi in abiura dell’intero orizzonte concettuale del movimento operaio, può ancora funzionare come lievito di un progetto di rigenerazione della sinistra e, ad essere più chiari, del socialismo?

Possiamo provare a costruire una risposta.

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