La «qualità elevata» contro la trappola dei «livelli essenziali»
Autonomia Contro la legge Calderoli c’è già un quesito referendario e altri verranno dalle regioni. Si ipotizza poi un ricorso alla Consulta. Ben vengano queste iniziative, anche se dall’esito incerto, dipendendo […]
Autonomia Contro la legge Calderoli c’è già un quesito referendario e altri verranno dalle regioni. Si ipotizza poi un ricorso alla Consulta. Ben vengano queste iniziative, anche se dall’esito incerto, dipendendo […]
Contro la legge Calderoli c’è già un quesito referendario e altri verranno dalle regioni. Si ipotizza poi un ricorso alla Consulta. Ben vengano queste iniziative, anche se dall’esito incerto, dipendendo dagli orientamenti della Consulta sui limiti ai referendum e sull’art. 116.3 Cost. (disposizione che, astrattamente, consente alle regioni di ottenere competenze ulteriori su ben 23 materie essenziali, nonostante la ragione si opponga a tale ipotesi).
Avanzo una proposta, che si potrebbe mettere subito in campo, per impedire che l’attuazione del regionalismo differenziato diventi una mina vagante per l’unità nazionale e, allo stesso tempo, per porre rimedio alle nefaste conseguenze della modifica del titolo V.
Come è noto, l’art. 117, II, comma, lett. m) ha imposto allo stato definire i «livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali», cioè i Lep, la cui fissazione è indicata dalla legge Calderoli come condizione per il trasferimento delle materie in cui sono necessari.
Pochi hanno evidenziato, però, che i livelli «essenziali» delle prestazioni sono l’opposto dell’eguaglianza, non la sua difesa. Essi nascono nel 2001, con il Titolo V, quando il principio di eguaglianza si è ribaltato in una inammissibile eguaglianza al «minimo». Essenziale, infatti, vuol dire minimo, strettamente necessario. Al tempo, l’inconcepibilità di un tale stravolgimento fu rilevata solo da Gianni Ferrara.
Non è un caso che il dualismo Nord Sud nell’ultimo quarto di secolo sia aumentato. Il sistema consente che le regioni con più soldi possano andare oltre l’essenziale (non quelle povere), utilizzando, già adesso, tributi erariali. L’art. 119.2, infatti, oltre ai «tributi propri» prevede che le regioni «Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio».
Una disposizione che ammette una forte sperequazione (le regioni ricche godono di più tributi erariali). L’art. 119 prevede, proprio per questo, un «fondo di perequazione», il cui compito non è ristabilire l’eguaglianza, ma evitare diseguaglianze eccessive! Il modello è quello sperimentato nel 2000 con il federalismo in sanità, finanziato proprio dalla compartecipazione regionale all’Iva (più soldi ai ricchi) e corretto da un fondo perequativo, per evitare che si realizzino diseguaglianze eccessive. La prima attuazione del fondo, inoltre, diede, paradossalmente, di più alle regioni ricche e di meno alle povere, tanto che Piero Giarda si chiese come avesse potuto una maggioranza di centro sinistra essere così «antipoveri».
Queste idee sono state concepite durante il dominio della cultura neoliberale che ha portato ad espandere il mercato (o i suoi principi di funzionamento) anche nella vita sociale e in quella delle istituzioni. Più si espande l’area del mercato e della competizione, più si restringe quella della solidarietà e dell’eguaglianza sostanziale.
La proposta cui mi riferisco sarebbe la seguente. Un progetto di legge costituzionale, di iniziativa parlamentare, che modifichi il 117.2 Cost., sostituendo la parola essenziali con «di qualità elevata» e, nel contempo, abroghi la parte del 119 che consente «la compartecipazione delle regioni al gettito dei tributi erariali riferibile al loro territorio». Hanno già quelli «propri», sulla cui spesa i cittadini possono esercitare il controllo con il voto, come richiede l’autonomia.
È chiaro che anche questa proposta, volta a creare una cornice istituzionale che disinneschi i potenziali effetti dirompenti del regionalismo differenziato, è ad esito incerto. Già ci provò Massimo Villone con un una legge di iniziativa popolare mai discussa.
Tuttavia, avrebbe alcuni effetti immediati, se fosse presentata dalle forze politiche che stanno facendo opposizione all’attuazione dell’art. 116.3.
Eliminerebbe la più forte motivazione del governo, cioè di star realizzando il risultato voluto proprio dalla sinistra, mettendo in difficoltà il centro-destra, che dovrebbe opporsi esplicitamente a una modifica che va nel senso dell’uguaglianza e dell’unità nazionale.
Renderebbe chiaro che alla base dell’opposizione di questi mesi vi sia un effettivo ripensamento critico delle scelte pregresse, fugando ogni dubbio di strumentalità della posizione attuale.
Un ripensamento necessario, infine, per segnare la discontinuità da un lungo periodo in cui le forze di sinistra sono state alfieri dell’espansione senza limiti del mercato, di cui il federalismo «concorrenziale», non è che una delle molteplici manifestazioni.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento