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La protesta degli studenti riscopre l’etica politica

Il presidio per la Palestina al senato accademico dell’università di TorinoIl presidio per la Palestina al senato accademico dell’università di Torino

Acampade nei campus Pensano politicamente quando immaginano pratiche di risposta ai bisogni collettivi di partecipazione e riconoscimento. O quando difendono valori, che dovrebbero essere condivisi. Propongono una politicità differente: una potente dimensione etica si riscontra oggi nel sostegno alla causa dei palestinesi, massacrati, affamati e umiliati

Pubblicato 5 mesi faEdizione del 14 giugno 2024

Molte università nel mondo sono occupate da studentesse e studenti che lottano per la Palestina: ottengono talvolta qualche risultato, non raramente incontrano repressione e condanna. Un caso recente di stigmatizzazione ha riguardato l’Università di Torino, assumendo subito una portata più ampia di quella locale, perché ha svelato un problema generale, ossia l’esistenza di una vera e propria frattura tra corpo docente e corpo studentesco fondata su divergenti concezioni del rapporto tra Università e società e quindi su concezioni della politica molto diverse tra loro.

Il fatto: alcuni docenti» torinesi hanno spedito a La Stampa di Torino una «lettera anonima» in cui esprimerebbero lo scandalo per l’occupazione di alcune sedi universitarie, denunciando di essere costretti al silenzio perché «terrorizzati» da studenti e studentesse. Avrebbero addirittura timori per la propria incolumità fisica (La Stampa, 3 giugno 2024).

I LETTORI sono portati a credere effettivamente che ci siano stati casi di minacce e violenze fisiche ai danni di docenti. Invece non si hanno notizie di questo tipo. Neanche una. Anzi, nelle diverse assemblee e riunioni tra studenti, docenti e personale tecnico le discussioni sono state aperte: vi hanno preso parte anche quanti chiedevano il ridimensionamento dell’occupazione, nonché i critici di quelle iniziative pubbliche che hanno suscitato tante polemiche. Da questi incontri nessuno è uscito «impaurito», «minacciato» e «offeso».

Dire il falso, per di più in forma anonima, è molto grave: significa contribuire al declino della politica come partecipazione vitale e arricchente, proponendo implicitamente un’altra visione della politica, chiusa e velenosa.

Detto ciò, bisogna ammettere che tra il mondo studentesco in mobilitazione, il corpo docente e il governo degli atenei, pare essersi aperto un baratro difficile da colmare perché affonda le radici in processi di lunga lena e profondi che riguardano appunto la crisi della politica, o finanche il suo tramonto, ovvero la depoliticizzazione.

Da decenni la politica subisce la riduzione alla sua dimensione di governo, con lo svuotamento di potere delle assemblee, dal parlamento ai consigli circoscrizionali, dai consigli di dipartimento ai senati accademici: si va spegnendo la politica intesa come visione, mediazione, rappresentanza, che nell’università era anche rappresentanza diretta, con pratiche di autogoverno che raramente si vedevano in altre istituzioni, pur tra forti contraddizioni e il permanere di un concezione quasi feudale del potere.

LA RIFORMA Gelmini del 2010 ha imposto un più forte governo dei rettori, dei direttori, delle fondazioni bancarie, con la fattiva collaborazione delle imprese private. Studentesse e studenti sono stati ridotti a materie prime oggetto di un processo di produzione di laureati, da plasmare, addestrare, addomesticare per il mercato.

Si tratta quindi di studenti e studentesse depoliticizzati? Per un verso sì, date queste premesse: sono spinti a uno studio rapido e performativo, raramente si socializzano alla politica tradizionalmente intesa dentro le università, e neanche al di fuori, nelle strutture di partito o di quel poco che ne rimane.

Eppure, pensano politicamente quando immaginano pratiche di risposta ai bisogni collettivi di formazione, di partecipazione, di riconoscimento. O quando difendono valori, che dovrebbero essere condivisi, contestando la presenza umiliante per la stessa democrazia di forze discriminatorie, razziste, omofobe e fasciste all’interno delle sedi universitarie. Ricevono spesso risposte paternalistiche, oppure ostili e finanche violente da parte di quelle istituzioni di cui si chiede a gran voce il rispetto.

In realtà, propongono una politicità differente e dai tratti inediti: una potente dimensione etica si riscontra oggi nel sostegno alla causa dei palestinesi, massacrati, affamati, scacciati e umiliati dall’esercito di uno Stato che è oggetto di richiami severissimi da parte di istituzioni e tribunali internazionali.

DA SOLA l’etica non trasforma e non rinnova nulla, ma senza di essa la politica si riduce a gestione burocratica, mera amministrazione dell’esistente. Oggi questo tipo di politica rischia di essere complice dell’orrendo massacro di un intero popolo.

Studenti e studentesse gridano a gran voce: «Restiamo umani!». E mentre nelle auliche stanze si nicchia o si balbetta, un gruppo di anonimi docenti torinesi, rappresentanti di un ceto accademico autoreferenziale e miope, rispolvera i disonorevoli espedienti di una politica pericolosa, da cui è bene prendere le più ampie distanze, ovunque e senza esitazioni.

*Docente di Storia del pensiero politico all’Università di Torino

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