La promessa tradita degli Stati uniti di Trump
60 anni di «I have a dream» Il neo suprematismo ha cancellato diritti che sembravano acquisiti per sempre. Oggi i neri sono allontanati dal voto, l’affirmative action eliminata e persino lo schiavismo è rivalutato
Fra le citazioni ricorrenti nei discorsi di Martin Luther King, vi è quella dell’«universo morale che si incurva verso la giustizia», una locuzione di speranza verosimilmente importata, come molte, dalla tradizione dei sermoni battisti.
Ma oggi, quella parabola di progresso appare deviata dall’involuzione trumpista con la sua retorica di ritorno ad una mitologica grandezza del passato. Più che seguire un arco virtuoso, si direbbe che la storia sia stata compiutamente circolare, riportando, per molti versi, la nazione al punto di partenza di molte delle battaglie combattute, e all’epoca vinte, da King.
Molte sue conquiste subiscono oggi un attacco diretto e concertato. Nel 2015 la maggioranza conservatrice della Corte Suprema ha abrogato il commissariamento federale degli stati ex segregazionisti. La clausola, che imponeva il vaglio federale ad ogni nuova legge elettorale varata dagli stati, era contenuta nel Voting Righs Act. Lo statuto firmato da Lyndon Johnson nel 1965 ratificava la principale richiesta di King, garantendo l’equo accesso alle urne per i neri del sud. L’inibizione del voto tramite l’intimidazione, gabelle, esami di alfabetismo ed altri pretesti era un armamentario adottato dopo la guerra civile, per mantenere l’egemonia bianca anche negli stati dove gli schiavi liberati erano numericamente superiori, e sarebbe rimasto per cento anni ancora alla base del sistema di segregazione.
L’ACCESSO ELETTORALE è rimasto di vitale importante per una neo destra che rappresenta una popolazione bianca in declino demografico e che quindi dipende dall’inibizione del voto di donne, giovani e minoranze. Subito dopo, la sentenza del 2015, diversi stati come il North Carolina e il Texas hanno reintrodotto l’obbligo di presentare documenti, l’abolizione del voto per posta e l’interdizione per precedenti penali col pretesto della «frode elettorale», fenomeno virtualmente inesistente negli Usa ma adottato a cavallo di battaglia da Trump.
Nella Florida di Ron De Santis è stato creato un nuovo corpo di «polizia elettorale». L’anno scorso gli agenti hanno condotto una serie di raid ammanettando una ventina di persone all’alba, tutte Afro Americane, per il reato di aver votato pur avendo precedenti penali. L’interdizione a vita di votare è imposta, come la pena di morte, principalmente negli stati ex-confederati (attualmente è il Mississippi a volerla reintrodurre) e colpisce principalmente il gran numero di ex detenuti neri. Non è l’unica tattica degna degli anni più bui di Jim Crow. Quest’anno il parlamento repubblicano dell’Alabama ha ridisegnato i collegi elettorali uninominali, eliminando uno dei due distretti a maggioranza afroamericana, una trasgressione talmente plateale da meritare il biasimo della Corte suprema, ma lo stato ha per ora rifiutato di tornare sui suoi passi.
Virtualmente ognuno dei 25 stati governati dal Gop ha adottato restrizioni apertamente razziste. In Florida, ed ora anche in Arkansas, recenti decreti limitano o vietano i corsi di black history in quanto «polemicamente anti patriottici». Il governatore De Santis si è spinto a dichiarare che lo schiavismo è acqua passata e in definitiva ha anche avvantaggiato gli schiavi che hanno potuto imparare dei mestieri. Alcuni dei nove liceali neri che nel 1957 dovettero venire accompagnati da militari spediti da Eisenhower per integrare le scuole di Little Rock, oggi ottuagenari, sono tornati, con inquietante senso di déja-vu, a contestare le decisioni della governatrice Huckabee-Sanders. Clarence B Jones, collaboratore di King e autore dei primi sette paragrafi del famoso discorso, ha dichiarato al Washington Post che il paese sembra attraversare «un momento di follia» molto lontano dal sogno di King.
L’ATTUALE RIGURGITO reazionario ha nel mirino molti dei diritti che sembravano acquisiti, e divenuti, dopo le vertenze storiche del tardo Novecento, sinonimo di progresso sociale. Non a caso la revisione storica (come d’altronde per gli omologhi europei) è centrale alla strategia della nuova destra. Nell’America del 2023, milioni di donne hanno perso il diritto ad abortire, medici e famigliari che le assistessero sono passibili di severe sanzioni, compresi molti anni in prigione. A fine giugno la Corte suprema ha eliminato l’affirmative action – la facoltà di prendere in considerazione l’etnia nel valutare le ammissioni di studenti, pratica comune delle università da mezzo secolo.
Si tratta di una vittoria della «meritocrazia pura» sul concetto di intervento sociale per riequilibrare scompensi storici ed ingiustizie sistemiche, ovvero lo stesso meccanismo che venne implementato nella reconstruction, gli anni seguiti alla guerra civile che videro un enorme sforzo per integrare gli ex schiavi con leggi che portarono effettivamente a temporanee maggioranze di elettori neri in alcuni stati del sud. Dopo un decennio, la riforma venne abbandonata in seguito all’accordo fra parlamentari del nord e oligarchia bianca del sud. Un secolo dopo il movimenti per i diritti civili aveva riattivato l’impeto riformista ed il concetto di more perfect union insito nel preambolo costituzionale: l’idea di progresso sociale come necessario al progetto americano.
Se l’emancipazione degli Afro Americani dopo 250 anni di schiavitù e un secolo di apartheid, rese verosimile che il paese potesse infine mantenere la promessa della sua dichiarazione fondativa, l’attuale regressione «originalista» è predicata sul ripristino dei valori e dell’ordine simbolico «tradizionali». Un neo suprematismo antitetico alle lotte di King e al concetto di nazione imperfetta ma intenta – come nel sogno evocato nella marcia su Washington – a migliorare se stessa e scalare la montagna del proprie aspirazioni.
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