Nel 2007, nel presentare “Una democrazia incompiuta”, atti di un convegno organizzato dalla Società Italiana delle Storiche in occasione dei 60 anni del voto alle donne, io e Anna Scattigno ci chiedevamo quando sarebbe accaduto nel nostro paese che una donna assumesse il ruolo di presidente del consiglio o della Repubblica, registrando il ritardo complessivo che contrassegnava la presenza delle donne in politica rispetto ad altri stati europei, sia in termini percentuali che di ruoli di vertice. Giudicavamo questo un segnale di democrazia, il venir meno di un elemento di discriminazione ancora forte nelle istituzioni. Né ci sfuggiva il valore simbolico di questo passaggio.

Dunque certo non si può non riconoscere che l’elezione di una donna a presidente del Consiglio (eventualità oggi concreta) non rappresenti di per sé, a prescindere dalla sua collocazione politica, non solo un segno di modernizzazione, ma un segnale importante del venir meno di una discriminazione di sesso secolare. Esattamente come lo sarebbe, su un altro versante, l’elezione di un cittadino italiano di colore. Peccato che la sinistra, storicamente in prima linea nelle conquiste legislative sulla parità e i diritti delle donne, si sia lasciata sfuggire questa opportunità.

Detto questo, però, bisogna mettere un punto fermo e andare a capo, non per chiudere il discorso, ma per aprirlo a una serie di considerazioni altrettanto cruciali che facciano chiarezza su un dibattito dai contenuti spesso confusi e distorti dalla campagna elettorale.

La prima e più banale è che l’assunzione di questo ruolo da parte di una donna non significa affatto di per sé l’adozione di politiche concrete di parità o di sostegno dei diritti sociali delle donne. L’essere di sesso femminile insomma non vuol dire automaticamente l’adozione di politiche di genere. Anzi va detto che, in un passato più o meno recente, spesso le donne ai vertici della politica si sono mostrate del tutto omologate al potere maschile, con una piena adesione ai valori del patriarcato, quasi a voler rassicurare i loro compagni di partito.

La storia ci dice come nei governi conservatori e perfino durante il fascismo le donne che ricoprirono ruoli importanti nelle istituzioni (perché ci furono, anche se pochissime), lo hanno fatto sovente con funzione di «disciplinamento» delle altre donne rispetto ai ruoli di genere definiti dai loro governi, per quanto contradditorio risultasse ciò rispetto al loro percorso biografico. In un convegno storico (Di generazione in generazione, 2014) le abbiamo definite «emancipate, non emancipatrici».

Ma senza guardare così indietro nel tempo, basti pensare alla demolizione neoliberista del welfare della Thatcher o semplicemente, più da vicino, alle politiche di alcune nostre ministre di centro destra, come Gelmini, che in nome della razionalizzazione hanno tagliato scuole a tempo pieno, fondamentali per il sostegno al lavoro delle donne. Per non parlare della punitiva legge 40/2004 sulla fecondazione assistita, di fatto smantellata da successive sentenze della Corte Costituzionale.

Né si può dimenticare come in molte regioni italiane dove il centro destra è storicamente al potere i consultori non sono mai decollati (malgrado la legge 405/75); l’applicazione della 194 è stata gravemente ostacolata, tanto da provocare più di un richiamo da parte del Consiglio d’Europa (l’ultimo nel 2016); l’aborto farmaceutico vietato. Il cambiamento di indirizzo in alcune realtà è stato immediatamente conseguente al cambio di indirizzo del governo (come in Umbria, con la nuova governatrice donna).

È questo che rende poco credibili le rassicurazioni in tal senso di Giorgia Meloni, oltre alle concrete politiche dei suoi alleati europei in materia di diritti civili, che stanno portando un attacco alle più importanti conquiste delle donne, riproponendo modelli familiari e di genere obsoleti.

La seconda precisazione riguarda il femminismo, il cui obiettivo politico non è mai stato quello di avere una donna al governo tout court; semmai quello più «rivoluzionario» di cambiare la politica, di correggere il «peccato originale» della democrazia rappresentativa, nata con l’esclusione delle donne, di trasformare la sua «matrice genetica monosessuale» (come la definiva Maria Luisa Boccia), scardinando i principi patriarcali che ne costituivano l’architrave portante.

La sfida era (e resta) quella di rifondare una democrazia che assuma la differenza, una democrazia a due, per ricordare il titolo di un libro di Luce Irigaray. Il riequilibrio della rappresentanza era considerato semmai il presupposto di una trasformazione profonda, fondativa di un nuovo patto tra generi e generazioni, tra cittadini e cittadine, tra elette ed elettrici, leva per una trasformazione reale delle istituzioni e della società.