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La prigione non basta, il «cholo de mierda» mette ancora paura

La prigione non basta, il «cholo de mierda» mette ancora pauraLima, agenti davanti a un murale "Polizia assassina" – Ap/Lucas Aguayo Araos

Perù Una sconcertata oligarchia è costretta a misurarsi con i «nadies», i nessuno traditi da tutti, in piazza per Pedro Castillo. Oggi l’udienza per la scarcerazione (senza speranze) del presidente arrestato per golpe

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 28 dicembre 2022

L’oligarchia peruviana è sconcertata: perché sono ancora tanti i simpatizzanti di Castillo, malgrado l’evidente tradimento del programma per cui era stato eletto, gli indizi di corruzione (se non nel suo caso, certo in quello di suoi stretti collaboratori) e la rottura dell’ordine costituzionale operata con il tentativo di dissolvere il Congresso?

Secondo la sociologa Francesca Emanuele, la spiegazione è chiara: se l’ex maestro rurale non rappresenta più le aspettative di cambiamento del popolo povero, tuttavia simboleggia ancora «la discriminazione strutturale nel paese».

NON A CASO, durante tutta la sua breve e tormentata presidenza, Castillo è stato vittima di attacchi razzisti di ogni tipo: lo hanno chiamato cholo de mierda, ignorante, comunista e terrorista e si sono pure presi gioco dell’abbigliamento e del modo di parlare di sua moglie.

Ma, soprattutto, la giustizia peruviana, tradizionalmente assai lenta, si è accanita contro di lui con una rapidità inusitata e un fin troppo chiaro intento politico.

SE NON ERA MAI successo che la Procura generale presentasse una denuncia costituzionale contro un presidente in carica, la procuratrice Patricia Benavides non ha esitato a segnare un precedente, denunciando Castillo per organizzazione criminale, traffico di influenze aggravate e interesse privato in atto pubblico.

Una persecuzione culminata, dopo il suo tentativo di scioglimento del Congresso, con un arresto cautelativo di 18 mesi, su cui oggi si terrà l’udienza d’appello, ma con ben poche speranze che la Corte Suprema si pronunci a suo favore.

È per questo che ai nadies, i nessuno del Perù profondo permanentemente vessati, umiliati e accusati di terrorismo, viene spontaneo identificarsi in lui e chiederne la liberazione.

Ed è per questo che l’approvazione, da parte di uno screditatissimo Congresso, del progetto per anticipare le elezioni all’aprile del 2024 non è bastata a fermare le proteste, al di là della pausa decisa per le festività natalizie.

I MANIFESTANTI chiedono di più: oltre al rilascio di Castillo, anche lo scioglimento del Congresso – controllato dalla destra fedele a Keiko Fujimori con l’acquiescenza dei parlamentari cosiddetti progressisti, rimasti tutti al loro posto -, l’anticipo delle elezioni al 2023, un’Assemblea costituente e la rinuncia della presidente Dina Boluarte: l’«usurpatrice» ritenuta responsabile delle almeno 28 vittime della repressione.

Così, mentre la presidente, nel suo discorso di Natale, ha insistito su quanto avrebbe «voluto iniziare il governo di transizione senza questa violenza e queste perdite umane che fanno male al cuore», come se non fosse stata lei a ordinare la repressione e la militarizzazione del paese, le 109 federazioni e le oltre 2.400 comunità riunite nell’Asociación Interétnica de Desarrollo de la Selva Peruana l’accusano di avere «le mani sporche di sangue».

E INTANTO SALE a 10 morti il bilancio delle vittime ad Ayacucho, dove, dopo sei giorni di terapia intensiva, è morto il 19enne Jhonatan Alarcón Galindo, colpito alla schiena da un proiettile sparato dalle forze di sicurezza.

«Non è possibile che questo governo abbia ordinato di uccidere i nostri compagni come pecore al macello», ha denunciato la zia del giovane Luzmila Alarcón, rivolgendosi alla comunità internazionale per ottenere giustizia, giacché «la giustizia in Perù non esiste per noi contadini».

MA ALLE ACCUSE sul piano interno si somma anche, per Dina Boluarte – già costretta a un rimpasto di governo dopo la rinuncia dei ministri dell’Educazione e della Cultura proprio per protesta contro la repressione – il mancato riconoscimento di diversi governi latinoamericani, dalla Colombia all’Argentina, dalla Bolivia al Messico.

Molto tese, in particolare, le relazioni con il governo di Andrés Manuel López Obrador, dopo la concessione, da parte di quest’ultimo, dell’asilo politico alla moglie di Castillo Lilia Paredes e ai suoi due figli, arrivati a Città del Messico il 21 dicembre, e la conseguente espulsione dal Perù dell’ambasciatore messicano a Lima Pablo Monroy.

Un’espulsione definita «arbitraria» dal presidente López Obrador, il quale tuttavia ha scartato una rottura delle relazioni diplomatiche con il Perù.

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