La comunità musulmana di Monfalcone ha avuto giovedì scorso l’ennesima sorpresa. Una pattuglia della polizia locale è entrata nella sede del Centro Darus Salaam (Dimora della Pace) e si è messa a identificare tutti i presenti. Il Darus Salaam è uno dei due centri in cui la sindaca di Monfalcone Cisint ha vietato si svolgano attività di culto motivando che lo impediva l’originaria destinazione d’uso dei locali (sarebbe stato più semplice e risolutorio cambiare la destinazione d’uso ma evidentemente non sarebbe risultato altrettanto gratuitamente provocatorio).

Nessuna preghiera comune da dicembre scorso ma sono rimaste le normali attività di un Centro che, per esempio, cerca di offrire supporto ai tanti immigrati attratti dalla vastissima nebulosa di appalti intorno a Fincantieri. Così, quando la Polizia locale è entrata senza invito e senza mandato, si stava svolgendo il doposcuola autogestito. Tre insegnanti bengalesi e nove bambini con i quaderni aperti sui banchi.

Nome e cognome, documenti, a uno a uno rilasciano le generalità, le giovani maestre bengalesi sono intimidite, non chiedono, obbediscono. Poi anche i bambini, stupiti e spaventati da quegli uomini in divisa con la fondina al fianco. Nome e cognome, dove abiti, come si chiama tuo padre. Una bella prova di forza. Gratuita, immotivata, senza spiegazioni. Da giovedì sono in parecchi a chiedere un verbale, una carta, qualcosa, ma nella sede della polizia bocche cucite e comandante tutt’ora irreperibile. Per la sindaca Cisint si è trattato di un normale controllo, punto e basta. Non pregavano, contenta? E dei nomi cosa se ne fa?

A Monfalcone la polemica si è rinfocolata. Il razzismo non smette di provocare e sono ormai sette anni che la propaganda anti-islamica è quotidiana come i provvedimenti mirati a mettere in difficoltà sempre e solo quella Comunità. Peccato, non è sempre stato così. La dimostrazione vivente di quanto sia stata possibile una Monfalcone diversa è Bou Konate, presidente onorario proprio del Centro Darus Salam. Che, questo è il bello, è anche la dimostrazione vivente di come Monfalcone potrebbe essere.

Una vita di studio, di lavoro, di impegno. Bou Konate è nato in Senegal una sessantina di anni fa e grazie a borse di studio ha girato mezzo mondo: prima in Canada e poi in Italia fino alla laurea in ingegneria meccanica e la tesi sulle biomasse perché è di energia e di natura che pensa fin da bambino. L’aveva raccontato in una bella intervista a Marco Neirotti vent’anni fa: «Mi ci fissai quando avevo 13 anni. Andai con alcuni pescatori in alto mare e lì vidi una tremenda, impressionante moria di tonni, vicino a una raffineria. C’era un disastro ecologico e ce n’era anche un altro: quei tonni li portavano a casa e li vendevano».

Molti ricordi legati a Trieste, anni ’80 accoglienti e l’Università che offre una stanza alla Casa dello Studente perché una ventina di studenti musulmani possano pregare assieme per un paio d’ore ogni venerdì. E dopo la preghiera in un appartamento preso in affitto con i soldi di chi aveva la borsa di studio o un lavoretto; destinazione d’uso residenziale ma nessuno che solleva obiezioni.

Konate a Monfalcone si è fatto subito strada, nel lavoro e nella vita: stimato da tutti, nel 2001 è diventato assessore ai lavori pubblici nella giunta di centro-sinistra. Il primo assessore immigrato musulmano e nero d’Italia. E oggi è ancora protagonista con la sua pazienza e la sua misura, un contraltare a questa Monfalcone incattivita e nera: «La strada si percorre un passo dopo l’altro» dice ed ecco che sono sempre là il sorriso, la fiducia nel futuro, la determinazione.

La comunità musulmana lo ascolta, eccome, lo si è visto quando in ottomila lo hanno seguito in piazza per rivendicare il diritto a sentirsi cittadini uguali nella stessa città, a essere trattati come tali, a non essere discriminati, calunniati, provocati. Quella immensa sorridente massa compatta, le donne davanti a tenere lo striscione, capaci di smascherare in un fotogramma tante distorsioni e bugie sono state evidentemente un forte schiaffo per un’amministrazione che infatti continua a colpire con atti così gravi che è difficile attribuirli solo alla scelta elettoralistica di una candidata leghista con nell’obiettivo le europee.

Non si manda la polizia a identificare i bambini di un doposcuola, è un gesto odioso e intollerabile. E si può solo provare sgomento nel sentir dire alla sindaca «sono loro che non si vogliono integrare».