La Pink House, ultima trincea dell’aborto negli Stati uniti
Usa L’unica clinica che pratica Ivg in Mississippi, al centro del caso alla Corte suprema
Usa L’unica clinica che pratica Ivg in Mississippi, al centro del caso alla Corte suprema
La chiamano Pink House, è un basso edificio al 2903 di North State street, un tranquillo sobborgo di Jackson, Mississipi. È tutto dipinto di rosa-bubblegum. Un solo piano, piccolino, entrata modesta lungo un marciapiede – giusto un paio di pilastri di cemento che interrompono le inferriate – e pochi metri di praticello che lo separano dai vicini. Ma ha dodici telecamere.
Benvenuti al ground zero dell’aborto negli Stati uniti.
IL NOME UFFICIALE della Pink House è Jackson Women’s Health Organization. È l’unica e l’ultima clinica che esegue aborti in tutto lo stato del Mississipi – e anche in un sacco di spazio oltre i confini statali – e la protagonista della causa in corso alla Corte suprema. È stata legalmente perseguita e politicamente perseguitata, attaccata da attivisti e da media, da manifestazioni di frequenza insostenibile durante il giorno e da mascalzoni mascherati nelle ore restanti. Quelle dodici telecamere sono la seconda generazione, le prime vennero demolite a martellate una notte del 2015. Nessun colpevole, naturalmente.
NON È UN FENOMENO improvviso, è più un cambiamento climatico. Cinquant’anni fa, quando la Corte suprema legalizzò l’aborto negli Usa, i democratici quasi non se ne accorsero e i repubblicani tenevano un po’ a distanza gli esaltati politici e/o religiosi. E negli anni Ottanta c’erano 14 cliniche che facevano aborti persino nell’arretrato Mississipi. Poi arrivarono gli anni Novanta, le destre politiche cominciarono a chiedersi come riportare alle urne elettori disincantati, e l’aborto riprese quota nel dibattito, ogni giorno di più e peggio. A Jackson (150mila abitanti, diciamo Ravenna) cominciò con una manifestazione qui e una protesta là. Poi arrivarono i media. E con i media, la destra repubblicana ufficiale. Apparvero le prime leggine: dapprima roba fiscale, l’aborto non detraibile, niente permessi sul lavoro. Poi più insistenti: i medici devono avere questa e quella autorizzazione, le cliniche devono sottostare a questa o quella limitazione… Finché in tutte le cliniche del Mississipi la vita diventò un inferno – un costoso, complicato, a volte pericoloso inferno. Una alla volta chiusero tutte. Non la Pink House.
La direttrice della casa rosa è una nera ben piazzata di nome Shannon Brewer. Ci lavora da vent’anni, vi ha svolto ogni e qualsiasi incarico, conosce ogni precedente – di bombe, di stalking, di manifestanti che entrano a forza e aggrediscono lo staff… In novembre Shannon Brewer è finita sulla copertina di Time raccontando il suo ventennio nell’ultima trincea dell’aborto pubblico, del numero d’emergenza del Fbi vicino al telefono, del televisore a circuito chiuso che incombe sulla sua scrivania e riempie le sue ore di capo de facto della sicurezza (è lei che quando una delle dodici telecamere inquadra facce nuove, o un furgone mai visto, esce a verificare).
I manifestanti, alla Pink House li chiamano «abortion tourists». Li vedono ogni settimana da anni, un po’ più spesso quando si avvicina la discussione in un parlamento o un tribunale statale. Ma adesso c’è la Corte suprema, la causa-di-fine-di-mondo. Quindi i turisti dell’aborto arrivano in massa tutti i giorni, e ogni giorno che dio manda in terra una mezza dozzina di donne devono attraversare il picchetto di ultrà religiosi armati di candele, preghiere e verità rivelate per accedere a un servizio sanitario, e questo dopo aver fatto sette ore di viaggio dal Texas dove i ginecologi sono estinti, o pagato alberghi per sé e babysitter per figli che hanno spesso in quantità – Shannon Brewer di figli ne ha sei, sarebbe uguale se non ne avesse alcuno ma così, per dire. Alcune “Pink House escort” (tutte volontarie) accompagnano le donne nella clinica scansando i cartelli che le accusano di omicidio.
I MEDICI ORMAI vengono tutti da altri stati, alcuni remoti e liberal come il Massachusetts (come se il ginecologo di Ravenna partisse, diciamo, da Helsinki), per operare minacciati e malpagati nella trincea presidiata da Shannon Brewer, dove si lavora tre giorni a settimana – ma ora di più perché c’è la coda. Una di loro ha raccontato al New York Times le cazzate che è legalmente costretta a dire prima di operare: «Avere un aborto aumenterà il rischio di cancro al seno», recita, e aggiunge subito «non è vero, nessuno dice che sia vero, la Scuola americana di ostetricia e ginecologia non pensa che sia vero». Vengono da lontano, proprio come molte delle donne costrette a lunghi viaggi per un trattamento che – ancora per quanto? – è legale. Una volta si diceva libero gratuito e garantito ma non ditelo troppo forte a Jackson, Mississipi.
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