Bibi perdente, Bibi ridimensionato, Bibi sempre più dipendente dalla destra estrema. La sospensione della seconda e terza lettura alla Knesset della riforma della giustizia per dare «tempo» a un esame allargato volto a «raggiungere un’intesa» annunciata ieri sera in diretta tv è per il premier israeliano e leader della destra israeliana una chiara sconfitta politica.

Appena qualche giorno fa Netanyahu escludeva di poter fermare l’iter avviato in parlamento nonostante le contestazioni dei partiti dell’opposizione e di una buona porzione di popolazione israeliana schierata contro il tentativo di ridimensionare il ruolo della Corte suprema. E aveva cacciato dal governo il ministro della difesa e suo compagno di partito (Likud) Yoav Gallant, colpevole di aver chiesto lo stop della riforma di fronte alle proteste emerse anche nelle Forze armate. Poi dopo una notte, quella di domenica, di tensioni, blocchi stradali e scontri violenti tra dimostranti e polizia senza precedenti nella storia di Israele e al dissenso emerso nel Likud, Netanyahu ha dovuto fare marcia indietro e congelare la riforma. Ora maggioranza e opposizione sono chiamate a intavolare una trattativa per trovare un compromesso sulla giustizia accettabile dalle due parti. Non ci sono garanzie sul risultato.

Pronunciando in diretta tv alle 19.05 italiane un discorso atteso sin dal mattino, Netanyahu ha preso a prestito la Bibbia per citare le due mamme che rivendicano davanti Re Salomone lo stesso figlio e la scelta di una di loro che non vuole fare a pezzi il bambino. «E io non voglio fare a pezzi il popolo» ha detto per accreditare il suo presunto «senso di responsabilità nazionale». «Non ci troviamo di fronte a nemici ma a fratelli. Non ci deve essere guerra civile» ha aggiunto non mancando poi di attaccare quella che ha definito «una minoranza di estremisti pronta a lacerare il paese, che usa violenza, appicca il fuoco, fomenta la guerra civile e fa appello alla disobbedienza». Quindi, confermando che a condizionare la sua decisone più di ogni altra cosa è stata la disobbedienza annunciata da tanti militari, il premier ha proclamato che «Israele non può esistere senza esercito, la disobbedienza – ha sottolineato – è la fine del nostro Stato.

Infine, ha aperto al dialogo. «Ieri ho letto la lettera di (uno leader dell’opposizione) Benny Gantz che si impegna in un dialogo e lo faccio anch’io. C’è la possibilità di prendere tempo. Offro l’occasione per un dialogo, vogliamo fare gli aggiustamenti necessari». L’ex premier centrista Yair Lapid si è dichiarato pronto a «dialogare» se, ha aggiunto, «sincero e non ci saranno sorprese». Soddisfazione da parte del capo dello Stato Isaac Herzog che nelle settimane passate, per porre fine alla crisi e al caos, ha offerto formule di compromesso che la maggioranza ha sempre respinto.

Protestavano e allo stesso tempo festeggiavano ieri pomeriggio a Gerusalemme gli 80mila, giunti anche da Tel Aviv e altre città, che hanno occupato l’area intorno alla Knesset. I media al mattino avevano anticipato che Netanyahu avrebbe annunciato il congelamento della riforma e la contestazione si è trasformata nel raduno della vittoria. Un successo reso più ampio dalla decisione dei vertici del sindacato Histadrut di proclamare uno sciopero generale che ha bloccato l’intero paese, incluse sanità, scuole e università. Paralizzato in parte l’aeroporto internazionale Ben Gurion dal quale per alcune ore non sono decollati aerei.

Su un palco improvvisato si sono alternati i principali leader dell’opposizione fra cui Lapid, Gantz e anche Avigdor Lieberman, leader dell’estrema destra laica da anni nemico giurato di Netanyahu. Due manifestanti antiriforma sono riusciti ad entrare alla Knesset e hanno urlato «Dimettiti, dimettiti» al ministro dell’istruzione Yoav Kish prima di essere bloccati e allontanati dalla sicurezza. «Non ci fidiamo di Netanyahu e del suo governo. Siamo pronti a rilanciare le manifestazioni se (il premier) ripresenterà la sua riforma. La Corte suprema non si tocca» ci diceva ieri Ariela, una insegnante armata come gran parte dei manifestanti di una bandiera israeliana. Per Shiri, una attivista ebrea dei diritti dei palestinesi «Sarebbe un errore grave considerare finita la crisi. Non può esserci democrazia senza la fine dell’occupazione militare e la libertà dei palestinesi» ci ha spiegato ribadendo lo slogan scritto sui cartelli esposti dai suoi compagni, una cinquantina, che sventolavano bandiere palestinesi.

Verso sera i sostenitori dell’estrema destra e del governo Netanyahu hanno preso il posto dei contestatori della riforma. Un fiume umano affluito in gran parte dalle colonie israeliane nella Cisgiordania palestinese occupata a bordo di decine di autobus. Il primo ministro ha atteso il dispiegamento delle sue truppe per pronunciare il discorso atteso per ore da tutto il paese. Ma i giovani con il tipico look da khaluz (pioniere) dei coloni non erano lì per puntellare Netanyahu. Mai come ieri il premier è apparso così fragile, sconfitto dalla protesta contro la riforma e indebolito dalle imposizioni dell’estrema destra. Il ministro della sicurezza nazionale, il suprematista Itamar Ben Gvir (Potere ebraico), ha minacciato ripetutamente di mettere fine al governo nato a fine dicembre. Netanyahu, che era riuscito a strappare al mattino il sì alla sospensione della riforma al ministro della giustizia Yariv Levin (del Likud, contrario allo stop), è stato poi impegnato per ore a placare Ben Gvir. E pur di non veder crollare la maggioranza che dovrà salvarlo dai suoi guai con la giustizia, il primo ministro ha promesso al leader di Potere ebraico che il governo esaminerà al più presto la creazione di una Guardia Nazionale. La guida di questo nuovo corpo di sicurezza sarà affidata allo stesso Ben Gvir che oltre a comandare la polizia avrà sotto il suo controllo quella che deve considerarsi una milizia. «Ben Gvir ha formato una milizia privata. Siamo alla trasformazione di Israele in una dittatura» ha commentato l’ex capo della polizia Moshe Karadi.