In un momento in cui il linguaggio sembra scivolare, slittare sul piano semantico e parole e frasi vengono usate con colpevole sconsideratezza anche a livello istituzionale, è bene interrogare sempre noi stessi sui significati che attribuiamo ai vocaboli.  Agli aggettivi, in particolare, perché questi qualificano i termini a cui si riferiscono. Quindi, mi chiedo quale sia la connotazione che implicitamente pongo all’aggettivo “fascista”. Certamente non può essere quella del rinvio a un modello sociale e politico del tempo andato, quasi vedendo il rischio del suo identico riproporsi; ma neppure recidere il legame con esso.

Perché l’aggettivo indica qualcosa che di quel modello è la progressiva evoluzione, il suo riconfigurarsi nella contemporaneità sociale, comunicativa, valoriale. Non ne è scisso, arrivando a qualificare un elemento semantico e comportamentale che di quel germe è di fatto nutrito.

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Oggi quel germe – che rende la preoccupazione che oggi avverto non un inutile retaggio di qualcosa che non c’è più – lo ritrovo nella incapacità di riconoscere, forse perfino di saper leggere, l’appartenenza di ogni persona alla stessa connessione umana. L’incapacità di riconoscere, parafrasando la Arendt dell’analisi del totalitarismo, che la tragedia di cui quell’aggettivo è portatore non risiede nella non volontà di garantire specifici diritti, ma nella perdita della consapevolezza di appartenere ognuno a una stessa comunità disposta e capace di garantire qualsiasi diritto per tutti. A monte dei diritti ‘umani’ da garantire c’è il dovere di riconoscere la stessa umanità dei soggetti che si vuole portatori di tali diritti.

‘Fascista’ è quell’atteggiamento – e, quindi, quella persona che lo assume come proprio – di chi pensa che ci sia un altro che non è lui stesso, perché ha una struttura intrinseca di diversità totalizzante e che, nell’ipotesi migliore, debba essere lui a riconoscere come portatore di diritti o forse anche a tutelare; in quella peggiore lo percepisca come aggressore dei suoi diritti.

Perché interrogarsi su quest’aggettivo che sembra a me così leggibile? Che ritrovo attualmente in taluni atteggiamenti e anche molte espressioni linguistiche di interlocutori vari, talvolta anche benevoli nel loro dire? Perché la celebrazione della Liberazione non può limitarsi soltanto al doveroso ricordo del superamento del regime e della fine della catastrofe verso cui aveva portato il Paese. No, essa deve includere anche la liberazione da quel sentimento di alterità esclusiva che si era imposto come senso comune nella collettività e che aveva condotto a non riconoscersi più nell’unico ‘corpo’ dell’umanità. Una esclusione che, però, riemerge continuamente e che pone in crisi la capacità attuale di far vivere il senso profondo della liberazione.

Perché la giornata odierna chiede ancora che si debba lavorare – molto – perché ci si possa affrancare dalla necessità di definire come fascista qualcosa o qualcuno. Non perché l’aggettivo non serva e non qualifichi, ma perché l’idea di una alterità non appartenente non abiti più la nostra società. Allora avremo sconfitto i fascisti.

* Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale