Due giovani papà, Thaer Dwaikat di Balata e Jamal Omran di Burin, ieri si sono fatti fotografare con le loro bimbe appena nate in braccio e hanno annunciare che si chiameranno Shireen Abu Akleh, nome e cognome, per intero. Una nota di gioia in un giorno di tristezza e cordoglio che è un omaggio sincero alla memoria della reporter di al Jazeera uccisa mentre seguiva gli sviluppi di un raid delle forze militari israeliane a Jenin. I palestinesi, e non solo, puntano il dito contro Israele che nega le accuse e afferma che il colpo che ha centrato la giornalista è partito da mitra palestinesi. Uno scambio di accuse che ha raggiunto i livelli più alti di Israele e dell’Autorità nazionale palestinese ma che ieri, per qualche ora, ha ceduto il passo alla commozione dei tanti palestinesi che, scandendo slogan patriottici e sventolando bandiere, hanno partecipato ai funerali di Abu Akleh a Ramallah. Riti funebri e raduni si sono tenuti in altre località della Cisgiordania e nei centri arabi in Israele. La giornalista sarà sepolta nel cimitero cristiano ortodosso di Gerusalemme.

«Diamo oggi l’addio a Shireen Abu Akleh che era la voce della verità e la voce della nazione…Consideriamo Israele pienamente responsabile della sua morte», ha detto il presidente palestinese Abu Mazen presente assieme al capo del governo Muhammed Shttayeh alla cerimonia funebre tenuta nel quartier generale dell’Anp, la Muqata. Davanti a migliaia di persone, non poche delle quali in lacrime, Abu Mazen ha auspicato che «i criminali siano puniti» dalla Corte penale internazionale. «Respingiamo un’indagine con Israele sull’uccisione di Abu Akleh, non investigheremo con coloro che hanno compiuto questo crimine. Non abbiamo fiducia in loro», ha aggiunto. Di rado, negli ultimi tempi, le decisioni di Abu Mazen sono state in linea con i sentimenti del suo popolo. In questo caso c’è una posizione comune. La popolazione palestinese respinge l’idea di una inchiesta assieme all’esercito israeliano che considera responsabile dell’uccisione di Shireen Abu Akleh. I media locali ieri hanno riportato con evidenza le nuove dichiarazioni di Ali Sammoudi, il reporter del quotidiano al Quds che era con la giornalista uccisa e che è stato ferito a sua volta. Sammoudi ancora una volta ha escluso seccamente che vi fossero combattenti palestinesi nei paraggi.

La reazione di Israele alle parole di Abu Mazen è stata immediata. «Ci attendiamo una cooperazione aperta, trasparente e piena relativa ai reperti» ha detto il primo ministro Bennett ammonendo l’Anp «dal fare alcunché per confondere le indagini o per inquinare il processo di investigazione, in una maniera che non consentirebbe poi di determinare la verità». Poco prima l’esercito israeliano aveva comunicato i primi risultati della sua indagine secondo cui Abu Akleh, non si trovava sulla linea di fuoco dei cecchini israeliani appostati mercoledì nei pressi del campo profughi di Jenin. Tuttavia se Bennett e il ministro della difesa Gantz reclamano il proiettile estratto dal corpo della giornalista, proprio l’esercito fa sapere che potrebbe essere compatibile sia con gli M16 impiegati dai soldati israeliani sia con i mitra dei combattenti palestinesi.

Le critiche maggiori a Israele giungono da Occidente. E non solo da organizzazioni a difesa dei diritti umani. Non ha dubbi l’attrice Usa Susan Sarandon. «Shireen Abu Akleh è stata giustiziata con un colpo alla testa da cecchini israeliani mentre indossava il suo casco e giubbotto antiproiettile con la scritta PRESS», ha scritto su Twitter domandando poi «Per quanto tempo continueremo a rimanere in silenzio mentre i nostri ‘alleati’ uccidono i giornalisti per aver detto verità scomode?». Le reazioni del mondo islamico all’uccisione della giornalista invece sono state tiepide. Certo, alcuni paesi arabi all’Onu hanno chiesto «un’indagine internazionale indipendente» ma la Turchia, che per anni ha avuto relazioni molto tese con Israele, si è accontentata di un tweet di Fahrettin Altun, membro della cerchia ristretta del presidente Erdogan, che non ha menziona Israele. Anche gli alleati di Israele nel Golfo e la Giordania si sono astenuti dall’accusare Tel Aviv. Diverso il caso del Qatar, proprietario di Al Jazeera, che ha condannato «con la massima fermezza l’assassinio compiuto dalle forze di occupazione israeliane».