Il video ufficiale diffuso dalla polizia per accompagnare il racconto dell’operazione sembra lo spot di una fiction: motociclette che sfrecciano per le strade, luci blu che illuminano le notti di periferia, agenti in borghese che si aggirano nei parchetti, cani antidroga, perquisizioni, ragazzini in tuta con il volto oscurato. E poi tirapugni, pistole, fucili giocattolo, bustine apparentemente piene di sostanze.

I numeri del blitz di ieri mattina contro le baby gang sembrano importanti: 500 agenti al lavoro in quattordici province da nord a sud, una quarantina gli arrestati (uno su quattro è minorenne), una settantina gli indagati, 6.342 persone identificate, 124 contravvenzioni, 27 veicoli sequestrati insieme a tre chili di hascisc, un chilo e trecento grammi di cocaina, oltre cinque chili di eroina. E appena 10.000 euro in contanti. Il comunicato della polizia sottolinea come si tratti di giovani inseriti in «aree di aggregazione giovanile e in contesti contigui al mondo dei trapper».

SU X, complice il nuovo social media manager che verga per lui almeno un post al giorno, esulta il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Ormai da qualche mese ha identificato nelle baby gang il nemico pubblico numero uno: dalle strette del famigerato decreto Caivano fino ai blitz cinematografici che periodicamente riempiono le cronache e le discussioni dei talk show. La musica trap, per il resto, sembra ormai essere diventata un elemento costante della cronaca nera: a Milano ormai da mesi si rincorrono le notizie di faide tra cantanti e rispettive gang a colpi di video minacciosi, aggressioni e anche qualcosa di più. Mohamed Lamine Saida, 21 anni, noto anche con il nome d’arte di Simba La Rue, lo scorso ottobre è stato condannato a quattro anni in primo grado per un’aggressione, e un mese dopo di anni ne ha presi altri sei (e quattro mesi) per una sparatoria nei pressi di corso Como a Milano. A gennaio uscirà il suo primo disco e pochi giorni fa, dai domiciliari, ha rilasciato un’intervista a Rolling Stone. «Non faccio certi video per dire ai ragazzini che devono spacciare tutti la bamba, essere dei narcotrafficanti e sparare alla polizia. Penso non sia quello il messaggio. È arte e basta: uno se lo può inventare e un altro lo può raccontare perché l’ha vissuto davvero. Io dico sempre di non essere un esempio per nessuno», dice prima di confessare quale sia la sua unica grande paura: «Tornare povero, crescere mio figlio come sono cresciuto io», cioè tra microcriminalità e carcere minorile.

ZACCARIA Mouhib, 22 anni, si fa invece chiamare Baby Gang e il suo curriculum giudiziario parla di una rapina (4 anni e 10 mesi in primo grado) oltre alla sparatoria che ha visto coinvolto anche Simba La Rue e che gli è costata cinque anni e due mesi. Su Instagram, dove conta 2,2 milioni di follower, ha commentato la sentenza mostrando il dito medio alla fotocamera. Didascalia: «Siamo cresciuti con l’ingiustizia. Ora ci facciamo due risate». Il suo disco, uscito lo scorso maggio, s’intitola «Innocente». Forse dicevano già tutto alcuni versi scritti dal rapper Marracash nel 2011: «Conosco un criminale che vorrebbe fare il rapper, conosco un rapper che vorrebbe fare il criminale».
Nell’operazione portata a termine ieri dalla polizia la parola trap appare come un marchio di fabbrica, la certificazione che si sta parlando di criminalità e non di un genere musicale. Poi, però, a scorrere l’elenco degli arrestati e degli indagati solo in un caso gli atti parlano di un ragazzo «dedito alla musica trap»: un minorenne accusato di rapina. Il sospetto di panico morale è altissimo e la sensazione è che gli uffici giudiziari stiano mischiando troppo la loro attività investigativa con la sociologia. Il rapporto intitolato Le gang giovanili in Italia, compilato un anno fa dal centro di ricerca Transcrime in collaborazione con i ministeri dell’Interno e della Giustizia, riconosce che siamo in presenza di un fenomeno «molto variegato e complesso» e identifica alcuni fattori che accomunano tutte le baby gang: «rapporti problematici con le famiglie, con i padri o con il sistema scolastico, difficoltà relazionali o di inclusione nel tessuto sociale e un contesto di disagio sociale o economico. Influente è anche l’uso dei social network come strumento per rafforzare le identità di gruppo e generare processi di emulazione o autoassolvimento».

LE RISPOSTE, però, sin qui non prevedono iniziative di carattere culturale o politiche che provino quantomeno a tamponare l’esclusione sociale, ma solo e soltanto repressione: blitz, arresti, condanne. Tutto spettacolarizzato, perché la materia è terreno fertile per un tipo di propaganda molto caro a questo governo. Sorvegliare e punire. E scriverlo sui social.