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La musica interrotta di Al Kamandjati

La musica interrotta di Al KamandjatiUn concerto nella scuola di musica «Al Kamandjati» a Ramallah nel 2017 – Getty Images

La storia Dall’orchestra di Daniel Barenboim ai campi profughi dei Territori Occupati. Ramzi Aburedwan ha creato una rete di scuole gratuite per i bambini palestinesi meno fortunati. Ma anche il suo sogno ora è finito sotto attacco. «Siamo tristi e frustrati. A Ramallah la scuola resta aperta, nei campi profughi invece il pericolo di essere attaccati o uccisi senza motivo dai coloni è costante e nessuno ci protegge»

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 8 marzo 2024

Tarda primavera del 2007. Partiamo alle sei di mattina da Ramallah, diretti al campo profughi di Jenin per visitare una scuola di musica. Percorriamo la strada 57 e poi la 60, le uniche che possono essere utilizzate dai palestinesi. Le altre possono essere percorse soltanto dai coloni israeliani. Prima di arrivare a Nablus la nostra automobile, che ha la targa palestinese, viene fermata quattro volte. Ai check-point i soldati di Tsahal chiedono i documenti, vogliono sapere dove stiamo andando e perché.

ALLA GUIDA c’è un nostro amico palestinese, Ramzi Aburedwan, un musicista che cinque anni fa ha aperto a Ramallah una scuola di musica e l’ha chiamata Al Kamandjati, il violinista.

Al quarto check-point aspettiamo un’ora, fermi, sotto il sole. Senza motivo. Poco dopo Nablus i militari israeliani, ci fanno scendere. Ci ordinano di lasciare la macchina al lato della strada: dobbiamo proseguire a piedi. Percorriamo una spianata di cinquecento metri, guardati a vista da una decina di soldati israeliani. Al di la delle barriere troviamo un taxi che ci porta a Jenin.

Quando arriviamo sono passate le due: per percorrere i 98 chilometri che separano Ramallah dalla città abbiamo impiegato otto ore. Alle porte del centro vediamo le rovine di due case: dalle macerie esce ancora del fumo. Amira Haas, la giornalista di Haaretz che viaggia insieme a noi, ci racconta che il giorno prima due bulldozer di IDF le hanno abbattute, in piena notte. Un minuto prima hanno avvisato le famiglie, con un megafono. Due ragazzi di 15 e di 17 anni che stavano dormendo non si sono svegliati e sono morti sotto le pietre.

Finalmente arriviamo al campo profughi, poco lontano dalla città. In realtà anche questa è una città: strade di fango, case basse con i mattoni a vista, i fili elettrici tesi da un muro all’altro, qualche vecchia automobile parcheggiata, ragazzi con lo zaino appena usciti da scuola. Qui – ci spiega Amira – vivono circa quindicimila persone: sono i figli e i nipoti delle famiglie palestinesi cacciate dalle loro terre nel nord della Palestina nel 1948. Il campo esiste dal 1953 e da allora è rimasto sempre uguale.

CI FERMIAMO AI CONFINI del campo, dove le ultime case lasciano il posto ad un pezzo di campagna arsa e spaccata dal sole. Andiamo verso un piccolo edificio bianco con i muri intonacati di fresco. È una struttura della Croce Rossa danese dove da qualche mese Ramzi ha aperto una sede distaccata di Al Kamandjati. La storia della sua vita ce l’ha raccontata il giorno prima, seduti, in un pomeriggio di luce chiara, nel giardino della sua scuola: un palazzetto ottomano nel centro di Ramallah, ristrutturato dallo studio di architettura di Suad Amiry, l’autrice di Sharon e mia suocera.

Anche lui – ci ha detto – è figlio di un campo profughi: è cresciuto ad Al Am’ari e da ragazzino è diventato famoso senza saperlo. Nel 1987 un fotografo della Reuters, al tempo delle della prima Intifada gli scatta una foto mentre lancia una pietra contro un tank israeliano. E l’immagine di quel ragazzino con i capelli neri e il giubbotto arancione, con una pietra nella mano sinistra e un’altra nella destra pronto a scagliarla, fa il giro del mondo. Ma lui lo non lo sa. La foto però – ci racconta – dice solo una parte della verità: la pietra Ramzi l’ha lanciata perché un minuto prima suo cugino, accanto a lui, era stato colpito da un proiettile sparato da quel carro armato ed era morto sotto i suoi occhi.

Ramzi cresce: una impiegata dell’Università di Bir Zeit lo riconosce a un incrocio mentre vende agli automobilisti giornali e sigarette, lo presenta a un insegnante di violino del Conservatorio di Ramallah intitolato a Edward Said, si innamora della viola, e quando ancora ai palestinesi dei Territori Occupati era consentito viaggiare, va a studiare al Conservatorio di Angers, in Francia. Si diploma in fretta e qualche anno dopo si presenta a una audizione in Spagna. Daniel Barenboim ha appena fondato, insieme a Said, la West-Eastern Divan Orchestra e lo fa subito sedere al leggio della prima viola.

 

Ramzi Aburedwan (Getty Images)

 

Ma Ramzi ha sempre in mente la sua terra. Torna a Ramallah e con l’aiuto di una Fondazione palestinese di stanza a Londra apre la sua scuola: la musica, però, non la vuole insegnare ai figli della borghesia palestinese che già frequentano l’Istituto Said. Gli studenti ai quali apre le sue aule, senza far pagare loro nemmeno uno shekel, sono i ragazzini dei quartieri poveri della città, quelli che non hanno mai visto in vita loro un violino, un violoncello, un flauto.

MA NON BASTA: il suo sogno è quello di portare la musica anche fuori dalla scuola, nei campi profughi dove è cresciuto. E allora – in anni di lavoro, percorrendo centinaia di chilometri con la sua automobile sportiva – riesce ad aprire piccole scuole di musica a Nablus, a Jalazona, a Kalandia, a Jenin. Una rete maestri e di allievi che per la prima volta si diffonde in tutti i Territori Occupati, fino al Libano e a Gaza.

Ed eccoci quindi a Jenin. La prima persona che Ramzi ci presenta è una bambina di dodici anni, Aisha. Lei non vive in città, ma in un villaggio sulle colline, a quindici chilometri di distanza. Per due volte alla settimana Aisha arriva a scuola a piedi, da sola, e torna a casa a piedi: sessanta chilometri ogni sette giorni per suonare gli strumenti che ama di più: le percussioni. «Ma perché – le chiediamo – fai tutta questa fatica per venire qui a studiare?». «Non è una fatica – ci risponde, in un perfetto inglese – è un divertimento: fare musica è il gioco più bello che conosco».

OGGI, DICIASSETTE ANNI DOPO, quel gioco è finito. E ben prima del 7 ottobre. Dal 2019, da quando Benjamin Netanyhau e i partiti di destra hanno ripreso a dominare la vita politica israeliana, le restrizioni al movimento dei palestinesi sono diventate ancora più soffocanti: nessuno ha il permesso di lasciare i territori, nessuno può entrare. E il comportamento dei coloni si è fatto ancora più violento e aggressivo del passato: aggressioni, attentati, esecuzioni sommarie, taglio indiscriminato degli ulivi, espropriazioni sono diventati una prassi quotidiana. Favorita e protetta dai militari di Tsahal.

«Noi cerchiamo di resistere – ci racconta oggi Ramzi – ma siamo tristi e frustrati. A Ramallah la scuola rimane aperta, ma nei campi profughi abbiamo dovuto diminuire di molto il numero degli allievi e delle lezioni. Il pericolo di essere attaccati o uccisi senza motivo dai coloni è costante. E nessuno ci protegge. Per non parlare dei concerti: le autorità israeliane li hanno semplicemente proibiti, cancellati».

PRIMA DEL CONGEDO Ramzi ci mostra un’altra foto, scattata qualche giorno prima a Gaza: si vede lo scheletro di un palazzo, distrutto da un bombardamento israeliano: dal pavimento del piano superiore, rimasto in piedi per miracolo, un uomo lascia cadere tra le mani di un amico, sotto di lui, un piccolo e fragilissimo oud, il liuto arabo. Le sue corde chissà come si sono salvate. E forse un giorno lontano qualcuno riuscirà ancora a far sentire la loro voce.

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