Il dialogo no. Stati uniti e Cina continuano a non considerarlo. Anzi, elevano la propria contesa a uno scontro tattico fatto di retorica che diventa propaganda, supposizioni che diventano accuse, luoghi comuni che diventano manifesti (geo)politici.

Ieri, Wang Yi è arrivato a Mosca. L’ultima tappa del tour del direttore dell’Ufficio della commissione centrale del Partito comunista doveva servire a dare l’impressione che la Cina stesse lavorando per la pace. Messaggio a uso e consumo in primis dei paesi europei, coi quali lo zar della diplomazia cinese aveva riannodato i fili durante il suo viaggio tra Francia, Italia e Germania. È diventato tutt’altro, dopo che il clima di tensione con gli Stati uniti è sfociato non solo in un duro confronto con Antony Blinken a margine della Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, ma anche a una controffensiva americana sul ruolo giocato dalla Cina.

«TEMIAMO CHE PECHINO possa rifornire la Russia di armi letali», ha detto il segretario di Stato americano. Dubbio ripreso e amplificato dai media. Il governo cinese ha definito «false» le accuse, lanciando il “pallone” (stavolta in senso metaforico) dall’altra parte del campo: «Sono gli Stati uniti che non smettono di fornire armi al campo di battaglia e non la Cina», ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin.

Ma nel frattempo le indiscrezioni e i sospetti sono bastati per richiamare sull’attenti i partner europei, implicitamente invitati a non fidarsi troppo della “proposta di pace” cinese che verrà presentata in occasione dell’anniversario dell’invasione.

Improvvisamente, la tappa nella capitale russa di Wang Yi viene percepita come un segnale di ulteriore allineamento tra la Cina e la Russia. Una visione alimentata dalla sortita di Joe Biden a Kiev, utile quasi a dividere in due gli schieramenti. Mostrando all’Europa come “giocare”, provando a stanare la Cina dalla sua ambiguità.

Un messaggio più netto sulla guerra provocherebbe turbolenze non volute con Mosca, il mero mantenimento della linea negoziale (con responsabilità del conflitto addossate a Washington) potrebbe non bastare più per convincere l’Europa sul ruolo di Pechino come neutrale garante di stabilità.

IL CONTROPIEDE AMERICANO rende più complicata la posizione cinese, anche perché Wang si fermerà nella capitale russa durante l’atteso discorso all’Assemblea federale di Vladimir Putin, che potrebbe poi incontrare. Da attendersi la riaffermazione dei rapporti bilaterali in grado di superare anche il “test” della guerra, così come le accuse nei confronti di Washington e della sua «mentalità da guerra fredda».

Wang lavorerà poi ai preparativi della prossima visita al Cremlino di Xi Jinping, mentre al largo del Sudafrica continuano le esercitazioni navali congiunte in programma fino al 27 febbraio. D’altronde, come affermato dal governo cinese, «gli Stati uniti non sono qualificati per dare ordini alla Cina e non accetteremo mai che ci dettino o impongano come dovrebbero essere le relazioni sinorusse».

Appare lontana la distensione tra le due superpotenze, forse il vero unico sviluppo in grado di scongiurare il perdurare del conflitto.

SIA GLI STATI UNITI CHE LA CINA non hanno colto i rispettivi assist al dialogo arrivati nelle scorse settimane. Prima la Casa bianca ha ignorato l’inusuale «rammarico» espresso da Pechino per il presunto pallone-spia, poi Wang ha snobbato la possibile via d’uscita mostrata dal discorso con cui Biden ha chiuso l’incidente. Entrambi li hanno anzi usati per provare a conquistare una posizione di forza in vista dell’ipotetica ripresa di un dialogo su cui però nessuno sembra voler fare il primo passo.