Vie periferiche, fabbriche in costruzione, grandi palazzi, spesso in strani accostamenti. La complessa stratificazione della città di Milano non è solamente uno studio appannaggio di architetti e urbanisti ma uno dei centri nevralgici del cinema di Marina Spada, regista milanese da sempre attenta scrutatrice della sua metropoli «in movimento» che, davanti alla sua macchina da presa, diventa personaggio indispensabile alla narrazione.

Marina-Spada

Riqualificazione sembra essere un odierno termine obbligatorio quando si parla di Milano…

La trasformazione è sempre qualcosa di traumatico perché noi, riconoscendo i luoghi, troviamo la nostra identità. Mi capita spesso di andare nei posti che vivevo da piccola per ritrovarmi e davanti al cambiamento avviene una sorta di crisi. La città cambia perché cambia il mondo, mutano le esigenze degli abitanti e di conseguenza le città si devono trasformare e credo che all’inizio del XXI secolo sia anche giusto così. A volte mi ritrovo a osservare vecchie foto di una Milano che io non conosco e a scoprire che interi quartieri nascono, ad esempio, sui cimiteri. La zona del Gentilino ad esempio era un grande cimitero che si chiamava proprio Il Gentilino e tutte le vie attorno sono intitolate a ufficiali francesi sepolti in quel luogo. È recente il tentativo di intervento sulle zone dismesse anche perché in genere si preferisce fare nuovi quartieri, così come è stato per il quartiere dell’ex Om dietro via Ripamonti. Anche l’Ansaldo è una fabbrica abbandonata che l’odierna amministrazione sta cercando di riqualificare anche perché si trova in una zona centrale piuttosto importante, a ridosso del Salone del Mobile.

L’Expo 2015 è oramai alle porte, fra battute d’arresto e improvvisi slanci. Come vive da regista, e da milanese, questo evento?

Expo è stato assegnato a Milano prima della grande crisi e del patto di stabilità e questo non può che influire in maniera negativa. L’amministrazione e tutte le istituzioni stanno facendo il possibile per far marciare questo evento che ormai non si può più evitare. È stato preso un impegno prima di sapere cosa sarebbe successo e obbligatoriamente i progetti sono stati ridimensionati e tante cose non si sono potute fare. Un grande limite insomma per la nuova amministrazione che viene, a torto, continuamente criticata, dimenticandosi del patto di stabilità ma il cinema ci insegna che anche con pochi soldi si possono fare capolavori grazie a botte di creatività straordinaria.

Il suo cinema, a partire dal primo lungometraggio Forza cani del 2002, ha documentato le evoluzioni urbane di Milano degli ultimi quindici anni, fotografando in parallelo i mutamenti pubblici e “privati” della città. È possibile azzardare un parallelo fra la trasformazione urbanistica della città e un ”progresso” del suo modo di fare cinema?

Tutto il mio cinema si svolge intorno a Milano, attorno al concetto di città che cambia. Quando ho girato Forza cani nel 2002 la città era ancora bloccata: prima ci ha provato Gae Aulenti a riflettere sul concetto di riqualificazione, poi una serie di concorsi pubblici ma i veri interventi urbanistici sono arrivati solo di recente. All’epoca del mio primo film tanti quartieri erano ancora abbandonati, le nuove costruzioni ancora lontane e in quel periodo ero molto interessata ai luoghi abbandonati, alle zone della Milano di notte, delle periferie e delle fabbriche dismesse che venivano usate per fare i rave. Qualche anno dopo, nel 2006, per Come l’ombra ho virato il mio sguardo sulla vita diurna della città, notando già i primi cambiamenti in una Milano diversa, a metà fra la periferia e il quartiere, anche grazie all’apporto di Gabriele Basilico a cui era piaciuto moltissimo Forza cani e aveva deciso di lavorare con me. Ho voluto girare nella cosiddetta “città media”, senza considerare il centro storico, dove l’architettura e le persone che la abitano sono “normali”. Poesia che mi guardi, il film sulla poetessa Antonia Pozzi, è stato un lavoro tutto di ricerca dei luoghi vissuti dalla Pozzi: parte della Milano degli anni ’30 così com’era e parte dell’architettura degli anni ’30 trasformata, zone come Porto di Mare e Chiaravalle. Il mio domani invece in gran parte si svolge nei nuovi quartieri, come il Portello, e nei cantieri in costruzione di tutta la nuova zona dell’Isola, la famosa zona abbandonata fino ai giorni nostri.

Ogni film sembra essere concepito sull’incidenza che le forme e i colori della città hanno sulla vita della gente che abita in quei luoghi…

Cerco sempre di testimoniare il momento della città che poi diventa anche il momento delle persone. Le mie storie partono dai luoghi ma non sono l’unica, Michelangelo Antonioni e Wim Wenders prima di me hanno utilizzato lo stesso approccio, e Milano diventa sempre più una città in cui la produzione è assente. Da un lato i palazzi salgono, dall’altro la crisi che monta, crisi anche umana al di là di quella economica, e non si sa perché quando ci sono periodi così le costruzioni partono a mille, non sapendo quanto questo generi reddito a livello diffuso ma con la certezza che lo provochi a livello settoriale.

In che modo i quartieri e le linee architettoniche influenzano le sue scelte di regia?

Mi colpisce il silenzio dei luoghi, anche quando sono pieni di traffico. Come l’ombra è stato girato nei giorni di Ferragosto, come Il mio domani. Cerco di girare quando ci sono i momenti vuoti, di transizione, nei luoghi che assomigliano alle piazze vuote di De Chirico. Cerco quel silenzio metafisico che trovo però più vicino ai quadri di Mario Sironi o di Edward Hopper, cercando di documentare il cambiamento che si rispecchia anche negli individui.

Ha lavorato spesso e in forme “mutevoli” con Gabriele Basilico. Come è nato e come si è sviluppato il vostro rapporto quasi simbiotico?

Ho visto la prima mostra di Gabriele all’inizio degli anni ’80 in Triennale. Ho sempre seguito il suo lavoro e mi ci ritrovavo, cercando per anni di approcciarlo fino a quando ho avuto l’occasione di fare un video-ritratto su di lui per la televisione. È nata una grande amicizia, accompagnandolo spesso in giro per la città a fare foto per i suoi lavori, e anni dopo gli ho chiesto di lavorare con me come direttore della fotografia per Come l’ombra. Facevamo insieme i sopralluoghi, definendo i punti macchina e confrontandoci sulla scelta delle location. Anche per Il mio domani è stato così, anche se la fotografia di quel film è di Sabina Bologna e Giorgio Carella, e successivamente abbiamo realizzato un libro sul film in cui ci sono i suoi scatti che ri-fotografano alcuni luoghi dove io ho girato e le foto del set, o meglio i ritratti della troupe, di Toni Thorimbert.