La metafora svanita è quella nucleare
30 anni dopo Chernobyl Qui da noi, per il poco nucleare che avevamo fatto – grazie alle ultradecennali lotte e alla vittoria di un movimento che non è solo consolatorio ricordare – il governo va vicino alla procedura di infrazione UE per il ritardo con cui il programma quadro nazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi viene avviato
30 anni dopo Chernobyl Qui da noi, per il poco nucleare che avevamo fatto – grazie alle ultradecennali lotte e alla vittoria di un movimento che non è solo consolatorio ricordare – il governo va vicino alla procedura di infrazione UE per il ritardo con cui il programma quadro nazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi viene avviato
«Prometeo è caduto a Chernobyl», proclamavamo con un po’ di retorica nel 1986, poco tempo dopo il disastro, denunciando dalle colonne del manifesto il perenne mito del dominio dell’uomo sulla natura, il «fuoco nucleare» sottratto alla natura per il bene dell’uomo.
Molti giorni dopo la stampa francese chiedeva scusa per aver occultato Chernobyl ai lettori, costretta dal clamore della manifestazione dei duecentomila, il 10 maggio 1986 a Roma.
In realtà il mito di Prometeo, che ha attraversato indenne la cultura greca, quella giudaico-cristiana e quella marxista, ha resistito alle incrinature che scorgevamo allora, segni della sua decrepitezza e inadeguatezza.
Un’altra significativa linea di frattura, dopo i colpi inferti dal faticoso avanzare della cultura ambientalista e del criterio di sostenibilità, è stata la recente «Laudato si’». L’enciclica infatti può «sbloccare» la cultura cattolica, e più ampiamente quella cristiana, dalle posizioni ancora maggioritarie che già mezzo secolo fa si attiravano critiche di filosofi e sociologi.
Quelle critiche indicavano nella religione cristiana la principale responsabile della distruzione ambientale, preconizzando un futuro di lotte, per le risorse in esaurimento, causate dai valori giudaico-cristiani che limitano il principio di responsabilità ai soli interessi umani.
Chi invece è crollato è l’oggetto della metafora di allora: il nucleare. Produce sì e no i due terzi dell’idroelettrico, copre l’1,8% dei consumi mondiali e delle 91 centrali nucleari che lo scorso anno ne compivano quaranta, solo dieci sono state «sostituite».
Quell’Epr, il reattore che Areva, l’industria nucleare di stato francese, voleva rifilare all’Italia con la succube complicità di Berlusconi, non riesce a superare lo stadio di cantiere.
A Flamanville, l’entrata in esercizio viene prorogata di anno in anno, dal 2010 al 2018, con un costo che è salito dai 3,2 a 8,5 miliardi di euro. Per fortuna ci pensarono gli italiani nel 2011 a respingere, per la seconda volta, un’operazione a perdere da tutti i punti di vista. E le vittime degli incidenti? Già, l’Iaea introdusse dopo Chernobyl la furbesca distinzione tra catastrofe «globale» e catastrofe «locale», una distinzione alla quale, a proposito di sicurezza, non rinunciano davvero i reattori di «terza generazione avanzata», quale il citato Epr.
E l’Oms fornisce per Chernobyl una valutazione di 9.000 morti in eccesso, insomma sempre meglio dei «58» ripetuti per anni come un infuriato ritornello dai paladini del nucleare alla domanda: «Quanti sono morti a Chernobyl?».
Però siamo sempre sotto di un ordine di grandezza alle stime avanzate tanti anni fa dalle Accademie delle Scienze di Bielorussia e Ucraina, e aggiornate nel 2008: circa 100 mila i decessi in più previsti.
E le costose epidemiologie chi le fa più, dal momento che dal 2009 sono stati addirittura sospesi i controlli sulla catene alimentari, mentre povertà e solitudine sono il segno del dolore umano di chi non ha abbandonato quelle aree o addirittura ci torna?
I rilasci radioattivi in atmosfera di Chernobyl sono stati circa dieci volte inferiori, per i radionuclidi guida, a quelli di Fukushima. Lì, la pena per le tremende immagini dei cadaveri rotolanti nei flutti dello tsunami, ventimila, non si estenderà alle invisibili morti per la radioattività, che, anno dopo anno, arriveranno a superare le vite mietute dalla catastrofe del maremoto.
Qui da noi, per il poco nucleare che avevamo fatto – grazie alle ultradecennali lotte e alla vittoria di un movimento che non è solo consolatorio ricordare – il governo va vicino alla procedura di infrazione UE per il ritardo con cui il programma quadro nazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi viene avviato.
Manca l’Ispettorato che doverebbe controllare tutte le attività connesse al decommissioning, dopo la gaffe sulla proposta di un incompetente, in contrasto con la legge, come suo direttore con in più un avviso di garanzia; né riesce a vedere la luce la carta dei siti potenzialmente idonei a ospitare un deposito nazionale, chiusa nel cassetto da circa un anno.
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