Poeta, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico, Bernardo Bertolucci viveva da qualche tempo sulla sedia a rotelle e aveva firmato un documentario sui disagi dei disabili nella città eterna. A dodici anni era sceso a Roma con la sua famiglia da Parma. A sei anni scriveva versi che raccolse in In cerca di mistero, con cui vinse il premio Viareggio opera prima. Voleva «uccidere il padre» Attilio che gli rispose che lo aveva ucciso più di una volta senza però farsi nemmeno un giorno di carcere.
Nello stesso palazzo di via Carini a Monteverde vecchio, venne ad abitare anche Pasolini. Fu lui il primo lettore dei suoi versi, poi lo ingaggiò come aiuto regista di Accattone. Passando al cinema non gli sembrò di aver tradito la poesia. Il cinema era come trascrivere sulla pellicola le immagini delle parole. Dopo alcuni corti, girò La commare secca (1963), un film che avrebbe dovuto fare Pasolini.

SEGUIRONO Prima della rivoluzione e Il conformista, tratto dal romanzo di Alberto Moravia. Nel 1972 girò Ultimo tango a Parigi e fu il primo successo planetario. Quando si presentò a Marlon Brando con pochi fogli intitolati La piccola morte, quel grande non lo guardò negli occhi, preso dal ticchettio nervoso delle sue scarpe sul pavimento. Due anni dopo ecco Novecento con il quale divenne ancor di più una star internazionale. Il film irritò i comunisti come Pajetta. Bernardo si era iscritto al Pci contro gli estremisti del Movimento.
In quegli anni lo vedevo nelle ville che Laura Betti d’estate affittava al Circeo. In quelle tavolate all’aperto, accanto a una siepe di rose gialle, c’erano anche Alberto Moravia, Pasolini e Monicelli. Bernardo veniva con Clare, la sua compagna inglese.

UNA SERA Bernardo sfidò Moravia al tappeto verde e lo fece vincere, mentre Alberto diceva che lui giocava soltanto con le parole. Mi fece una foto mentre sfogliavo un album di amori con animali che per divertimento la Betti aveva poggiato sul tavolino prima dell’arrivo di Moravia. Mi disse che del mio La casa in comune aveva letto il finale, come gli capitava con i romanzi. Era diventato un globe trotter, sia per i set dei suoi film che per diporto. Era stata Clare a spingerlo a viaggiare in tutto il mondo. La Cina lo conquistò.

Ma in tutti i suoi film era pur sempre l’autobiografia a campeggiare, soprattutto il mondo contadino parmense, che non dimenticherà più. Vennero poi L’ultimo imperatore, Il tè nel deserto, Il piccolo Budda, La luna, Io ballo da sola fino a The Dreamers sul Sessantotto francese. Quando vide il corto di mio figlio Alessandro adolescente, con le musiche di suo fratello Giovanni, intitolato: Effimero, disse: «Acerbo ma si farà». Era attento a ogni generazione di artisti, fino ad Ammaniti e Lagioia, proprio come Fellini. Da ultimo credeva che l’Italia non avesse più niente da raccontare al cinema, che il periodo berlusconiano era atroce per le arti tutte. Era un uomo buono, generoso. Ci incontravamo negli anniversari del nostro amico Moravia. Era fraterno, avendo soli tre anni meno di lui.

COMPIANGO di non aver insistito con Flaminia Siciliano che lo invitava a casa sua a San Lorenzo, nonostante la sedia a rotelle. Commosso rileggo La mia magnifica ossessione, a cura di Francione e Spila (Garzanti, 2010). Sono i suoi scritti, ricordi, interventi dal 1962. Si sente la voce pastosa, quando raccontava di Godard, Rossellini, Renoir e la sua passione per il cinema fancese. Quando a Parigi leggeva «grève», lui pensava a «rève».
Adieu Bernardo